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JENNY SORRENTI |
Com'è grande Enfermidade |
Polosud |
2004 |
ITA |
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A differenza del fratello Alan, che sul finire degli anni Settanta raggiunse un enorme ma effimero successo snaturando irreversibilmente la sua proposta musicale, la parabola artistica di Jenny Sorrenti è sempre stata improntata a una grande coerenza. Meravigliosi i due dischi con i Saint Just (specie il primo), intrisi di un decadente romanticismo quantomai originale, e non solo per l’Italia. Ancora nell’ambito dei Seventies giunsero le due prime opere solistiche, “Suspiro” (‘76) e “Jenny Sorrenti” (‘78), prima di un lungo silenzio che, diciamolo pure, aveva fatto pensare a un definitivo ritiro dalle scene. Invece, quando meno ce l’aspettavamo, agli albori del terzo millennio “Medieval Zone” riallacciava certi fili, evidentemente mai del tutto tranciati, sorprendendoci per la raffinata urgenza con cui la Sorrenti recuperava certe tradizioni, inserendole in un contesto attuale.
“Com’è grande Enfermidade” prosegue con lucidità e chiarezza tale discorso: dati i suoi natali napoletan-gallesi, per Jenny dev’essere naturale esprimersi con un sincretismo etnico una volta tanto non modaiolo e pretestuoso, ma intimamente sentito. La compenetrazione ‘celticità-mediterraneità’ si evince fin dall’opener “Galiziano-Portoghese”, dove la splendida, eterea voce di Jenny si integra a meraviglia nelle dolcezze strumentali world music. E’ un po’ lo stesso approccio di Enya e Loreena McKennitt (artiste che, sia chiaro, io stimo molto), tuttavia il risultato pratico non si può dire che corrisponda nella sua globalità, e infatti la movimentata title-track, con la batteria di Marcello Vento (ex Albero Motore, Carnascialia e un’infinità di altre cose), sta lì a dimostrarlo. Magnifico il tema, perfetta l’interpretazione vocale. Vagamente oscura e malinconica “Erev Shel Shoshanim”, molto northern style la rarefatta “Petra’s dream”. Segue un trittico in cui prevale forse una componente di folk italiano, da intendere in senso lato: davvero grande è “La pazienza”. Si segnala poi un pezzo fondamentalmente strumentale, scritto insieme a Marcello Vento e a Vincenzo Zenobio: alludo allo spumeggiante “Balcanico”, con un coinvolgente duetto fisa/chitarra. Tocca il cuore l’emozionante, appassionata melodia racchiusa nelle bellissime trame armoniche di “All roses”; in chiusura, Jenny ha modo di darci ancora un saggio delle sue potenzialità vocali nelle complicate partiture di “Non si vede e c’è”, padroneggiate alla perfezione, e nel suadente, carezzevole congedo acustico di “Lune impure”.
L’Enfermidade a cui si riferisce il concept è la follia umana disseminata nel mondo, non vista staticamente ma superabile grazie all’ottimismo e alla positività dell’esistenza stessa: forse, per l’uomo, è solo un problema di comunicazione, e allora nel suo piccolo la Sorrenti dà il suo contributo esprimendosi in una miriade di idiomi diversi. Il disco dona soddisfazioni su due opposti livelli di ascolto: tenuto in sottofondo distende e rilassa per la spontanea affabilità delle singole canzoni, che entrano subito in testa; più concentrate disamine rivelano invece, volta per volta, nuovi piccoli ma preziosi particolari, che lo fanno amare sempre più. E questo è il segno di tutto il suo valore.
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Francesco Fabbri
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