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PI-2 The endless journey Margen Records 2005 SPA

Tutto si direbbe fuorché questa band sia catalana: potrebbe essere inglese o americana ma nessun elemento ci porta a Barcellona, città natale del gruppo. La band, giunta al suo terzo lavoro, non era nient'altro che l'espressione delle idee del tastierista Pito Costa, e bisogna dire che i due precedenti lavori soffrivano un po' della forza accentratrice esercitata dal carismatico musicista. Questa volta ci sembrerebbe di assistere ad un lavoro più corale ed il risultato finale è encomiabile. Unico neo è rappresentato dalla mancanza di un batterista (il vecchio Lluis Ribalta se ne è andato) che ci auguriamo venga presto reclutato: la drum machine è programmata al meglio e a volte l'ascoltatore riesce benissimo a dimenticare questo particolare: un po' per la presenza di intermezzi sinfonici in cui le percussioni non vengono assolutamente impiegate, un po' perché le tastiere di Pito sono assolutamente ricche ed esuberanti da catturare tutta l'attenzione del pubblico e un po' perché la ritmica di questo drumming artificiale è variegata e non si inalbera mai su uno stesso tempo troppo a lungo. Fatto sta che questo CD può essere considerato come una nuova rinascita che spazza assolutamente via i tentativi un po' zoppicanti di qualche anno prima.

Si tratta di una sorta di album a tema incentrato sulla tematica della vita vista come un viaggio. Le liriche comunque esprimono concetti abbastanza generici che non delineano un concept vero e proprio. Le due tracce iniziali, due pezzi abbastanza lunghi, di circa 8 minuti, ci riportano verso il Prog pomposo dei Kansas, soprattutto per quanto riguarda le tastiere magniloquenti (molto bello l'incipit maestoso di "L10") che lasciano però spazio ad intermezzi cantati in stile AOR con coretti alla Queen e la voce del solista Alex Warner che ricorda Michael Bolton. Le due canzoni sembrano, per certi aspetti, quasi tratte da un musical con cori che si lasciano cantare a più voci inneggianti a sentimenti e sensazioni positive che si alternano a graziosi giochi di tastiere, a volte barocche e altre volte in stile primi Marillion. La band inizia davvero a fare sul serio con la splendida suite centrale (di circa 25 minuti), incastonata fra due brevi intermezzi sinfonici di fattura squisita, intitolati "1ª Tempesta de neu" e "2ª Tempesta de neu", che sono per la precisione l'uno una variazione dell'altro e fanno tornare all'orecchio i Kansas con tastiere ricche e fantasiose. La suite, che dà anche il titolo all'album, rappresenta il vero e proprio cuore dell'opera. L'apertura è affidata a passaggi distesi e semplici, ricamati da un flauto delicato cui fa eco una chitarra pulita e rilassante e, a sua volta, un sax anch'esso suonato in maniera piuttosto elementare. Il brano si prolunga in scioltezza con un andamento lento e disteso, forse un po' dispersivo ma comunque gradevole. Purtroppo proprio in queste fasi più pacate il suono della drum machine si rende odioso: il fastidio comunque cessa quando le tastiere, elemento più pregiato dell'intera opera, entrano in scena in pompa magna o quando viene meno la base percussiva lasciando spazio alle note solitarie di un pianoforte. Senza dubbio il gruppo dà il meglio di sé quando le cose si fanno più movimentate, come nella parte conclusiva della suite, coronata da tante piccole variazioni e ritmiche più vivaci. "Michael Bolton" torna a farsi sentire nella traccia di chiusura, una sorta di ballad per cuori teneri, che rappresenta l'epilogo dell'intero album con motivi che riprendono temi musicali già presentati durante questo interessante viaggio musicale.

Il giudizio finale, fra alti e bassi, è senza dubbio positivo anche se il disco, meritevole di ascolto e assai godibile, necessiterebbe comunque di piccoli aggiustamenti e ritocchi.

 

Jessica Attene

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