|
BAUER |
Astronauta olvidado |
Nadar Solo Discos |
2004 |
ARG |
|
Non particolarmente innovativo ma piuttosto interessante l’esordio di lunga durata dei Bauer, band argentina già con un paio di EP all’attivo: il primo, “Klee” pubblicato a nome Polaroid nel 2002 ed il secondo, “Bauer EP” uscito nel 2003 dopo il cambio di monicker.
Il quintetto (voce/chitarra, chitarra, basso, tastiere, batteria) è palesemente innamorato delle tematiche spaziali e di certe malinconiche inflessioni post-rock di inizio millennio che ben si sposano alla loro personale rielaborazione dell’eredità floydiana (il riferimento è al periodo Meddle) grazie anche alla cura riversata negli arrangiamenti e nella scelta dei suoni in genere.
Nonostante il cantato sia in lingua spagnola, il risultato è assolutamente privo di elementi latini ma si posiziona piuttosto in ambiti già battuti nei ’90 dai Radiohead di “OK Computer” (anche la grafica del booklet non fa nulla per distoglierci dall’impegnativo paragone) e nella scena odierna dai danesi Kashmir, alfieri del rock alternativo scandinavo.
Rispetto alla band di Oxford, comunque, le scelte musicali dei Bauer spostano significativamente il baricentro verso il rock sinfonico, grazie ad un uso più frequente del Mellotron da parte di Martin Mykletiw ed alla tendenza a dilatare i brani, che comunque rifuggono costruzioni labirintiche e si sviluppano senza perdere di vista una semplicità di fondo.
Un album a tema, dicevamo, composto di tasselli dalla struttura piuttosto omogenea, tanto da poter riconoscere quasi uno schema fisso nella scrittura: un inizio lento e riflessivo, il cantato un po’ monocorde e filtrato di Gabriel Ardanaz (che comunque possiede un timbro gradevole affine a Jesus Filardi dei Galadriel) che crea un effetto di distanza tra il protagonista - novello Major Tom dimenticato nello spazio - e la stazione terrestre, una parte centrale in cui spesso la chitarra passa da melliflui glissando di scuola Gilmour ad un’aggressività più rauca, per poi tornare a ritmiche languide e parti vocali altrettanto eteree.
Difficile segnalare brani che si distacchino dal resto dall’album, data l’uniformità dell’opera, tanto che a metà disco inizia pericolosamente a farsi strada una vaga sensazione di monotonia dovuta alla ripetizione fino all’eccesso dello stesso “canovaccio” (l’album con i suoi 72 minuti può francamente risultare troppo lungo…), comunque mi piace citare l’apertura di “De las nubes al sol…”, brano che funge da manifesto per il resto dell’opera, “Hemos traido muchas rocas lunares” per gli interventi di violino dell’ospite Pablo Grinjot ed il finale di “Un camino a través del aire”, episodio bifronte che contrappone all’ormai consueta immobilità narcotica della prima parte un nervoso finale effettistico e astratto.
Tirando le somme, un album onirico e dilatato, mai sopra le righe, certamente appetibile da chi apprezza un rock melodico e romantico dal retrogusto space: una miscela che potrà non essere particolarmente eccitante ma che di sicuro merita un assaggio.
|
Mauro Ranchicchio
Collegamenti
ad altre recensioni |
|