|
AKACIA |
This fading time |
Musea |
2006 |
USA |
|
Terza prova per gli alfieri del christian-prog provenienti dal Massachusetts (apro una parentesi per mettere subito in chiaro che quest’etichetta non definisce un nuovo sotto-genere, piuttosto allude alla tendenza a trovare ispirazione nella Bibbia per le liriche, una propensione che negli Stati Uniti non è certo una novità, basti pensare agli elementi religiosi inseriti nei testi di band come Kansas, Mirthrandir, Cathedral, Companion…).
La nuova formazione vede una svolta “in rosa” con la defezione del tastierista David Stratton in favore di Trish Lee, ma il ruolo delle tastiere resta purtroppo confinato a rifiniture piuttosto incolori, mentre la parte del leone tocca alla chitarra del leader Mike Tenenbaum, influenzato dal fraseggio scoppiettante di Steve Howe ma capace di riprodurre anche le delicate cesellature del primissimo Fripp e al cantato sempre un po’ invadente di Eric Naylor, che stavolta però si limita nello scavalcare il pentagramma e finire sopra le righe (non tutti nascono con il carisma di Peter Hammill, d’altronde…).
L’album parte in modo molto, molto promettente con “Mystery”, che sembra riecheggiare in chiave moderna le gesta di band di culto come Babylon, Pentwater e Lift: gli Yes sono dietro l’angolo ma le partiture sono così frizzanti da strapparmi senza indugi una benevola indulgenza; si prosegue sulla stessa linea con “DeScartes” (inclusa una citazione di “Heart of the Sunrise”) che però inizia ad evidenziare il principale difetto che si riscontrerà ascoltando l’album per intero, ossia l’incertezza nella struttura dei brani, che appaiono formati di ottimi frammenti legati in modo approssimativo.
“Another Life” e “In the Air” (ispirata dagli avvenimenti dell’11 settembre 2001) risultano essere due parti dello stesso brano, avendo in comune la medesima linea vocale; ci spostiamo stavolta in territori jazz-rock, con un pigro flauto canterburiano (non citato nei credits) a portare avanti in modo un po’ faticoso i 12 minuti complessivi, ravvivati a stento dal cantato eccentrico di Naylor - sulla falsariga del Greg Lake di “Brain Salad Surgery” ma purtroppo molto più monocorde.
Non si migliora molto in “Weatherman”, con la sua atmosfera serena vagamente in stile Happy the Man ed alcune linee vocali poco coinvolgenti; gli squarci strumentali conditi dal Mellotron non bastano a giustificare i dieci minuti di durata. Per fortuna “Unfading Divine” è un ottimo colpo di coda: si torna ai ritmi frenetici degli esordi e tra archi campionati ed un Naylor stavolta impeccabile ed ispirato riabilitiamo l’album concedendogli almeno un’ampia sufficienza, impressione confermata dalla breve chiusura di “January Sixth”.
Probabilmente abbiamo a che fare con “grower”, un disco che cresce di ascolto in ascolto: il sapore che prevale è però ancora quello di promesse mantenute solo parzialmente da parte di una band tecnicamente dotata e con entrambi i piedi saldamente piantati nel rock sinfonico ma incapace di distinguersi nell’affollata “cerchia dei pretendenti”. Concludo segnalando la copertina di Paul Whitehead intitolata in modo eloquente “Nine Eleven” ed elencando le band del recente passato che mi sovvengono per affinità con gli Akacia, sperando di chiarirvi ulteriormente le idee: Episode, Blue Shift, Madrigal, Realm.
|
Mauro Ranchicchio
Collegamenti
ad altre recensioni |
|