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ANTI-DEPRESSIVE DELIVERY |
Feel melt release escape |
The Laser's Edge |
2004 |
NOR |
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Prog-metal? Forse. Influenze hard-rock seventies? Sicuramente! Questo quintetto norvegese tenta la via di un hard-progressive in bilico tra l’eredità dei maestri Deep Purple e Led Zeppelin (ma senza gli elementi blues) e la più recente lezione dei Dream Theater, andando ad atterrare in un campo i cui frutti dovrebbero risultare appetibili soprattutto al mercato nord-europeo e statunitense. Probabilmente però le soddisfazioni commerciali non saranno state poi così cospicue ed appaganti, dato che la notizia dello scioglimento della band risalta tra le news del loro sito web; andiamo allora ad analizzare l’aspetto più strettamente artistico dell’album.
Nati nel 2002 dall’incontro di membri di band come Fig Leaf, Atrox, Bethzaida, Hellstorm, Griffin e Maelström, i cui nomi rimandano indubbiamente all’immaginario “metallico”, gli ADD passano dallo status di “progetto da dopolavoro” del cantante Pete Beck e del chitarrista Christian Boholt a quello professionistico dopo la pubblicazione di due demo che permettono loro di firmare un contratto discografico con la Laser’s Edge.
L’album è composto di nove tracce di media lunghezza e culminanti nei 15 minuti del brano di chiusura; la struttura è nella maggioranza dei casi quella del formato canzone, con assoli limitati al minimo in favore dei riff (non prendete quest’affermazione come una lamentela!), un cantato molto immediato e a volte sui tipici toni acuti dell’hard rock (“Voyage of no brain discovery”); nonostante il tastierista Haakon-Marius Pettersen sia accreditato anche per l’uso di Rhodes, Mellotron, piano, e synth, l’antagonista della ruvida chitarra di Boholt è indubbiamente l’organo Hammond, chiassoso e dal suono volutamente paludoso, debitore più di Jon Lord che di Keith Emerson.
Il Mellotron in realtà fa capolino qua e là, soprattutto a sottolineare i momenti più epici (la buona apertura di “End of days”, la chiusura recitativa di “0” o la stessa title-track) o le ballate rock (“Path of sorrow”) ma sembra quasi che il suo utilizzo (poco fantasioso) sia stato un obbligo da sbrigare per conferire una patina dal sapore prog a brani dalla struttura piuttosto convenzionale, sia pur non affatto disprezzabili. Come accennato, un discorso a parte merita “Bones and money”, una mini-suite dominata per buona parte da piano e Moog che permette all’album di concludersi lasciando un’impressione positiva.
In conclusione, un album onesto ma non certo al di sopra della media, dal suono molto “americano” che può invogliare i palati prog-metal, pur inglobando elementi un po’ estranei al genere e riconducibili direttamente ai mid-seventies. Se avete apprezzato opere come “Second Birth” dei Ritual o “Cowboy Poems Free” degli Echolyn o – dal versante più heavy - “Awake” dei Dream Theater, potete aggiungerlo alla lista degli acquisti tenendo però conto che in giro c’è di (molto) meglio anche su questo filone.
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Mauro Ranchicchio
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