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ZYCLOPE |
Contracorriente |
autoprod. |
2005 |
SPA |
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Dopo l’apprezzato esordio con l’album “Uno”, in cui la band si presentava come sestetto, tornano gli spagnoli Zyclope in formazione ridotta ad un trio, pur potendo contare sul costante contributo dei tre ex-compagni e di un nutrito numero di musicisti ospiti provenenti dai gruppi Mayunta e Kotebel.
L’album si apre con “Abrázate a la vida”: un brano piuttosto radiofonico con il cantato di Juan Olmos (anche tastierista e anche membro dei Punto de Mira di “Locura Temporal”) un po’ troppo enfatico che può non piacere. La qualità della registrazione non è ottimale, ad esempio la batteria ha un fastidioso suono legnoso che finisce per imbrigliare un po’ la dinamica dei brani. E’ con la successiva “Mi musa” (che contiene un tentativo di emulare i Pink Floyd di “The great gig in the sky”) che scopriamo il decisivo ruolo del violino nell’economia sonora degli Zyclope: è proprio Yasia Shevchenko a condurre le danze tessendo le melodie con il suo strumento, mentre il flauto dell’altro ospite Omar Acosta è spesso e volentieri confinato nelle retrovie da un mixaggio discutibile. Possiamo affermare che due anime distinte convivono nella musica degli Zyclope: mi sento di preferire decisamente i momenti strumentali, in cui - ironia della sorte - il violino suonato da un componente esterno alla band resta l’indubbio punto di forza, infondendo elementi genuinamente classicheggianti (“Praga”, “Dulce y claro”, “Días de vino” che possono ricordarci i brasiliani Kaizen e Quaterna Requiem) a ciò che altrimenti potrebbe essere archiviato come il prodotto di una band di caratura media. I restanti brani cantati sono una spanna inferiori, anche se forse “Gracias a tí”, con il suo arioso tema introdotto ancora una volta dal violino, potrebbe rievocare i Kansas del periodo classico, ma purtroppo trovo che proprio le linee vocali non siano affatto all’altezza del resto e rischiano di banalizzare il tutto. Raramente le due tendenze si fondono con successo, forse solo in “Catarsis” brano di media complessità che possiamo descrivere come una versione moderna dei conterranei Bloque e nell’ottima “Luna llena” in cui ascoltiamo per la prima volta un synth in libera uscita. Altro elemento di plauso lo merita l’ottimo gusto melodico del chitarrista Nacho Ortiz nelle sue uscite solistiche, ispirate chiaramente al prog anglosassone della seconda ondata.
Tirate le somme, un’opera apprezzabile che evidenzia il talento indubbio di un paio di componenti e la predisposizione della band per tessiture di matrice classica, quasi cameristica; mantengo invece le mie riserve per quanto riguarda il rovescio aggressivo della medaglia, che lascia un sapore di forzato e artefatto. Attendiamo con fiducia il terzo passo, in cantiere con il titolo di… “Tres”.
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Mauro Ranchicchio
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