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LA TORRE DELL'ALCHIMISTA |
Neo |
Ma.Ra.Cash |
2007 |
ITA |
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“Neo”, secondo CD in studio della band bergamasca Torre dell’Alchimista, è in un certo senso emblematico nel delineare i problemi della stragrande maggioranza dei dischi dell’attuale prog da qualche anno a questa parte. Ebbene, rispetto a quanto avveniva negli anni ‘70, non c’è dubbio che, in media, oggigiorno si incida meglio e (talvolta) si suoni meglio; a far difetto, purtroppo, è quella reale personalità compositiva che permette di creare i veri capolavori.
Non è un caso il riferimento al periodo d’oro del progressive, giacché qui tutto è in stile, dai suoni utilizzati (peraltro stupendi) ai moduli arrangiativi. Non che ciò sia in sé un male; tuttavia, per recuperare quell’iniziale ‘partenza ad handicap’ che è il logico confronto coi numi tutelari del passato, occorrono allora doti creative assolutamente particolari. Quello della Torre dell’Alchimista è un bombastic prog che prevede uno spettacolare tripudio di tastiere vintage: sulle prime si rimane avvinti; poi, pian piano, subentra quella specie di nausea da... zucchero filato che si riscontra ascoltando pure, ad esempio, le giapponesi Ars Nova. Il tastierista Michele Mutti è indiscutibilmente un virtuoso, col santino di Keith Emerson sulla testata del letto; il cantante Michele Giardino è sempre a suo agio, anche quando le melodie che deve interpretare sono complesse e stranianti (“Dissimmetrie”, “Risveglio, procrezione e dubbio pt. 1”); la ritmica del tandem Donadoni-Donadini (sic!) risulta al pari precisa e puntuale, pur con tempi spezzettati e sincopati (di nuovo “Dissimmetrie”)... Detto questo, è però altrettanto vero che il gioco lo capisci in fretta e diventa prevedibile, per cui sai già che si inizierà con un ipertrofico Hammond, si rallenterà con un placido mellotron, si inserirà un violino qui, un flauto o un sax lì, e così via. Le citazioni, si diceva, sono evidentissime: a parte i “soliti noti” del prog italiano, mi sono spesso tornati alla memoria Cherry Five e Uovo di Colombo. Difficile distinguere l’una dall’altra le varie suites; posso magari dire di aver gradito un po’ di più l’enfasi drammatica di “Cerbero”, che attinge non poco dal Museo Rosenbach. Ma per il resto ho trovato maggiore soddisfazione nei due brevi interludi “Idra” e “L’amore diverso”, forse scolastici nella concezione, ma che almeno concedono una differente sfaccettatura.
Formalmente perfetto, ma senza vera ispirazione.
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Francesco Fabbri
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