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AUDIOCRACY |
Revolution's Son |
The Lost Records |
2008 |
USA |
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Audiocracy è un progetto che nasce dalla collaborazione via internet tra musicisti di diversa estrazione ed ispirazione. Ne è ideatore ed artefice Tobin Mueller, poliedrico artista, tastierista e compositore, che per l'occasione si avvale della collaborazione del figlio, il bassista e vocalist Twøn – Twonicus, dei chitarristi Bob Piper, Darren Chapman e Tadashi Togawa e del batterista Rob Thruman. Questa formazione debutta con "Revolution's Son", una storia che descrive ascesa, caduta e resurrezione di un giovane rivoluzionario, il tutto raccontato attraverso le tappe del suo tormentato percorso denso di visioni idealistiche e suggestioni poetiche. Sono sette i capitoli di questo concept album, piccole storie a sé stanti, tenute insieme dalla musica e da una poetica ed al tempo stesso vaga aspirazione alla libertà e al cambiamento.
La musica è sconcertante, caotica come la tangenziale nell'ora di punta, densa di voci e suoni fino all'ingorgo. Difficile districarsi e trovare un attimo di tregua per sfuggire all'aggressione delle voci prevaricanti, dell'organo monocorde, delle chitarre amorfe. Ancora più difficile è trovare riferimenti per queste composizioni complesse, intrecciate, senza soluzione: qualche sprazzo vocale alla Gentle Giant, qualche momento corale caotico che ricorda alla lontana il Todd Rundgren di Utopia. Ma forse avventurarsi alla ricerca di una pietra di paragone costituisce un esercizio inutile in un quadro dai contorni indefiniti come è, a mio avviso, il "Progetto Audiocracy".
Sciabolate di organo colpiscono l'ascoltatore all'inizio del primo brano, "Revolution's Son", mettendolo in forte apprensione; ma questo è niente in confronto all'effetto prodotto dal lavorio costante, monotono e ridondante delle voci, che parte dalla title track e attraversa implacabile tutte le sette tracce. L'approccio con il secondo brano, "Puzzle City" sembra più abbordabile, si intravede una trama che prende forma, ma tutto viene vanificato da un coro disarmonico che sovrasta gli strumenti e ne annienta ogni velleità.
E allora avanti con la lunga "Escape from the Fray Zone", in cui tastiere, chitarre e percussioni elettroniche procedono in ordine sparso, lasciando spazio nel finale alla voce inquietante di Twøn e alla timida chitarra di Chapman.
Le cose non vanno meglio con "Speak To The Power": qui le voci si fanno minacciose e terrificanti, sovrastando gli strumenti e gettando nel caos più oscuro il tutto il progetto. Fortunatamente c'è ancora uno spiraglio di luce con "Gethsemane Again", brano dalle cadenze più rilassate con le voci intente ad omaggiare i Gentle Giant. Il finale è tutto in salita con la terribile "When The Future Comes", brano in cui due vocalist, Twøn e Mueller, entrano ancora una volta in azione per mettere nell'angolo tutti gli strumenti, e la dignitosa "Dare to Sing" che resiste solo in parte al devastante narcisismo vocale di Twøn.
Revolution's Son è un lavoro originale e complesso: tanto complesso che in alcuni momenti risulta essere indecifrabile. Il suo limite principale è costituito, a mio parere, dallo squilibrio tra le parti vocali, ipertrofiche e strabordanti, e gli apporti strumentali, validi e tuttavia quasi mai adeguatamente valorizzati.
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Antonio Mossa
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