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OLIVE MESS |
Cherdak |
Mellow Records |
2008 |
LET |
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Si potrebbe discutere per ore, senza mai arrivare alla soluzione, sulle differenze che passano fra un grande disco ed un capolavoro, fra un ottimo album e una pietra miliare del prog. Di fronte ad un disco del genere conviene lasciare questi interrogativi ai filosofi, buttare ogni nostro punto di riferimento all'aria e godersi la musica senza troppi perché. Forse questo disco non sarà tale da meritarsi l'etichetta di "capolavoro", ma la sua freschezza, la sua originalità, l'incatalogabilità della musica qui contenuta sono elementi sufficienti ad accendere l'interesse ed il desiderio di ascolto: questo basti. Cosa rende questa musica particolare? Cosa ce la fa apprezzare rispetto alle centinaia di uscite che ogni anno incrementano il catalogo delle case discografiche specializzate nel nostro genere? A mio modo di vedere la risposta potrebbe essere fin troppo semplice: la commistione di elementi folkloristici che affondano le radici in un passato che appartiene ormai ai libri di storia, e mi riferisco al mondo dei menestrelli e dei trovatori, ad un linguaggio musicale moderno, nel contesto del quale sono individuabili modelli noti, e penso ai Gentle Giant e anche ai King Crimson, l'uso di riferimenti letterari colti, la struttura imponente delle canzoni concepite come se si trattasse di capitoli appartenenti all'epos. Tutto questo, può essere più che sufficiente a farci apprezzare questo album, che non nasconde qualche imperfezione, ma le cui imperfezioni fanno parte integrante dell'opera complessiva contribuendo a loro modo ad aumentarne il fascino. Questa musica ha racchiusi in sé i segreti nascosti dalla polvere antica, dell'amor cortese e delle grandi gesta cavalleresche. Non a caso il titolo dell'album è "Cherdak" che in russo significa "soffitta" e nelle soffitte di solito si trovano molte cose curiose e dimenticate, proprio come avviene aprendo questo prezioso scrigno sonoro. A questo punto mi rendo conto di avervi confuso probabilmente le idee, cerchiamo quindi di trattare questo album in maniera un tantino più organica. L'imponenza dell'opera si intuisce già dalla track list composta da sole 4 canzoni che variano da un minimo di 10 minuti ad un massimo di 17. Queste quattro tracce si presentano come blocchi monolitici, imponenti come le mura fortificate di un antico castello. L'ascoltatore si trova letteralmente a dover affrontare quest'album la cui interpretazione non è agevolissima all'inizio ma, una volta superati i fossati, le austere torri e l'imponente ponte levatoio, una volta fatta luce negli angoli più oscuri e remoti, allora si dischiuderà alle nostre orecchie un mondo fantastico ed inaspettato. La traccia di apertura si intitola "Beowulf" e come potrete benissimo immaginare si tratta di un brano dedicato all'omonimo poema epico inglese. Per l'occasione viene recuperato l'antico testo in un elegante riadattamento dei primi del Novecento. La voce possente e solenne di Maris Jekabsons sembra quasi inciampare sulle parole anglosassoni ma la sua austerità si adatta alla perfezione al clima del pezzo. L'apertura con le bagpipes ci aiuta ad immergerci nello spirito della canzone e l'uso di strumenti come l'archiliuto e la chitarra barocca ci fa tornare indietro nel tempo. Alcune soluzioni sonore ricordano alla perfezione certi graziosi esperimenti dei Gentle Giant, come li si potevano ascoltare in "Raconteur Trobadour" o in certi pezzi di "In A Glass House". Il risultato finale è un mosaico a tessere minute assai insolito e ricco di strani particolari in cui è bello perdersi, apprezzando la maniera in cui vengono pizzicati gli strumenti a corde, la maniera insolita in cui vengono intrecciate le sequenze melodiche, o i particolari nascosti delle tastiere. Il tutto ha un sapore arcaico, proveniente da un reame misterioso o inesistente. La successiva "Ovum Mechanicus" è uno strumentale basato su sequenze melodiche intriganti e a volte un tantino disarticolate, dalle atmosfere torve e misteriose che giocano su intrecci costruiti con piano, clavicembalo (o qualcosa che vi somiglia nel timbro) e chitarra. "Mane, Thechel, Phares" è la traccia più lunga e qui troviamo sequenze più tirate ed un testo che sorprendentemente è in latino. La storia narrata è quella dell'ultimo re di Babilonia e per questo argomento il gruppo lettone ha saputo ritagliare le giuste atmosfere che ora sono cupe e tormentate, ora solenni e ora inaspettatamente graziose, come se ci si spostasse all'improvviso dagli ampi spazi di una cattedrale gotica a un conviviale banchetto medievale ricco di speziate pietanze. Tutte queste emozioni e sensazioni si mischiano come in una chimera con un effetto finale curiosamente piacevole dato anche dai molti riferimenti alla musica antica. La traccia di chiusura è "Tombeau de Cherdak" e dobbiamo dire che le sorprese non finiscono mai in questo album e in quest'occasione viene tirato fuori un testo in provenzale antico. Anche questa traccia è decisamente singolare ma in particolare ne possiamo apprezzare gli effetti percussivi e la vivacità degli arrangiamenti. Giunti fin qui mi rendo conto che forse questa recensione è più ingarbugliata del dovuto (effetto del disco?), spero comunque di essere riuscita a trasmettervi almeno una parte delle emozioni di ascolto. Cultori di cose insolite, di musica antica, di stranezze musicali, fatevi avanti: qui c'è materia per voi.
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Jessica Attene
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