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MARTIN ORFORD |
The old road |
GEP |
2008 |
UK |
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Non che sia poi troppo chiaro il motivo che ha portato Martin Orford fuori dagli IQ, ma prendiamo atto del fatto avvenuto. In effetti dopo 25 anni insieme e neppure a strettissimo contatto, viste comunque le parche uscite degli ultimi anni, ci si sarebbe aspettato un sodalizio di quelli inossidabili. Ma la cosa che appare più grave e, al contempo, più strana, è che l’addio non sarebbe solo nei confronti del gruppo madre, ma nei confronti della musica in generale. Ci crediamo? Staremo a vedere.
Quindi, stando alla teoria, questo disco dovrebbe valere come epitaffio alla carriera di Orford, apparentemente stufo del music business, del download selvaggio, ecc. ecc. Resta ancora da capire perché l’abbia voluto fare, l’epitaffio, con musicisti diversi dagli IQ.
Veniamo al lavoro, per la cui registrazione Orford ha voluto vicini molti (ma non tutti) dei vecchi amici di percorso. Saltano fuori illustri e internazionali quali John Wetton e Nick D’Virgilio, nomi del giro new prog albionico, quali Andy Edwards, Gary Chandler, Dave Meros, Steve Thorn, David Longdon e vari altri. Il punto di partenza, come esposto chiaramente e in apertura delle note di Orford, è che “This is not a progressive rock album”. Il fatto che l’autore l’abbia voluto rimarcare in maniera precisa, chiara e definitiva ci dà qualche indicazione del percorso gestatorio dell’opera. Eppure non ci convince affatto. Sì, Orford suggerisce di non farsi traviare da alcuni stilemi tipicamente utilizzati per il genere, ma come si può credere ad un’affermazione e poi ascoltare l’opener “Grand Designs” brano tipicamente IQ dove Orford oltre ad infilare il solito grandioso parco tastiere suona la chitarra facendo un po’ il verso all’amico Holmes? Oppure la successiva e strumentale “Power And Speed”, dotata persino di un intermezzo di fusion canterburyana, stile Pacific Eardrum, o ancora certi intermezzi strumentali della title track, ma non solo. Vero che nel disco troviamo anche ampi spazi di rock inglese, AOR-prog stile Asia come in “Take In To The Sun”, guardacaso cantata proprio, sempre in forma smagliante, da Wetton, su una melodia magistrale quanto accattivante o pop alla Phil Collins anni ’90, come in “Ray Of Hope”. Complessivamente i brani sono belli, costruiti in maniera estremamente convincente, ben movimentati e mai noiosi, ricchissimi in melodia, ben equilibrati tra chitarre e tastiere, suonati, incisi e prodotti in maniera professionale e impeccabile. Lo spazio dominante va sicuramente alla ricerca ritmica e melodica, grazie ad un Nick D’Virgilio (in tutti i brani tranne l’opener) semplicemente splendido e agli intrecci vocali attraenti, così attraenti da risultare in alcuni tratti (mi si passi il termine in accezione positiva) ruffiani. Altro elemento fondamentale della band è Steve Thorn, spesso protagonista con voce o chitarre e coautore del brano “Out Of Darkness” realizzato in stile molto Genesis/Collins.
Il disco è bello, molto bello, effettivamente anacronistico: sarebbe il disco che se fosse uscito agli inizi degli anni ’80 sarebbe stato consumato sui giradischi di casa e soprattutto nei mangicassette da auto. Sarebbe stato il disco determinante per lo sviluppo sonoro di una decade e, forse, non solo. Questo perché ricco in sentimenti, in onestà, in professionalità, in quell’arte della semplicità e dell’accortezza istintiva che è propria della musica fatta seriamente. Merita per tutti questi aspetti e merita perché il suo acquisto vuole essere un gesto di antipirateria, come chiesto dallo stesso Orford.
Giudizio totale e finale: assolutamente convinto! Convinzione prettamente musicale, perché le bugie o hanno le gambe corte o il naso lungo, quindi Orford - presto - dovrà rendere conto delle “azzardate” affermazioni.
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Roberto Vanali
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