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JOHN ORR FRANKLIN |
Transformation |
Blue Room Digital |
2009 |
USA |
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Il secondo album del chitarrista texano John Orr Franklin, che segue l’esordio “Pathways” del 2007, è una raccolta di brani concisi ed eleganti in cui il progressive rock (genere ed etichetta che l’artista non rifugge affatto) è solo un’influenza che fa capolino qua e là ad arricchire un pop-rock più tradizionale ma non affatto banale (pensiamo agli Alan Parsons Project o ai Barclay James Harvest del dopo Wolstenholme). Coadiuvato da un team selezionato di collaboratori, tra cui il bassista Kris Mathesen e il batterista Rob Palladino (attualmente membro integrante della sua “touring band”), John si occupa anche della produzione, delle tastiere (sempre in secondo piano) e occasionalmente del basso, oltre ad essere l’unico autore degli 11 brani.
Il fraseggio chitarristico di Franklin ne fa indubbiamente un discepolo della scuola Gilmour ed è specialmente nei brani strumentali che si palesa il suo amore per il prog, altrimenti non così evidente. I due pezzi in apertura, infatti, hanno ben poco di progressivo ma sono brani AOR ben costruiti e si lasciano ricordare, interpretati con una vocalità non cristallina ma particolare, che ben si adatta a questo contesto (posso paragonarla al timbro di Kevin Moore negli O.S.I.…); è appunto con la strumentale “Flow” che il discorso si fa più interessante: qui pare che la solarità di band come Jadis e Pendragon venga ibridizzata con un tocco fusion, e la cosa funziona inaspettatamente. L’altro pezzo che non contempla parti vocali, “Chrysalis” è un brano new-prog ancora più tipico con una chitarra sostenuta che sparge nell’aria gradevoli aromi di Pink Floyd e IQ.
Possiamo affermare che i rimanenti brani cantati si allontanino parecchio da queste coordinate, con “The dove” che con il suo andamento simil-reggae può essere accostata più agli Eagles, il rock-blues sornione e un po’ beatlesiano di “Summer” o la ballatona “True 2 U” che pure trova le sue radici nell’hard-rock degli anni ’70, per finire con il pop banalotto di “Disappear (only one world)”. Discorso a parte merita infine “This day”, posta in chiusura: se avete apprezzato l’ultimo lavoro solista di David Gilmour (“On an Island”), con le sue melodie pacate infarcite di liquidi preziosismi chitarristici, qui ritroverete le stesse suggestioni; in ogni caso una composizione malinconica che permette all’album di giungere al termine lasciando un’ottima impressione.
Apprendiamo che Franklin si sta apprestando a portare la sua musica sul palco con una formazione triangolare; data la natura della proposta - certamente adatta al contesto live - gli auguriamo il successo che si merita, anche se forse l’audience di riferimento non sarà poi quella avvezza a Yes e Genesis, ma che importa?
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Mauro Ranchicchio
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