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THE TEA CLUB |
General Winter's secret museum |
autoprod. |
2008 |
USA |
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Nell’anno 2003, a Philadelphia, accadde una cosa particolare. Sarebbe stato un nonnulla se la stessa cosa fosse accaduta trent’anni prima, ma il fatto che il quell’anno dei ragazzini di 15 - 18 anni avessero deciso di mettere su una band di progressive, credo si debba considerare cosa veramente particolare e anomala. Il fatto è che Patrick McGowan imparò a suonare la chitarra dal padre, che gli insegno quello che conosceva cioè il prog degli anni ’70. patrick volle subito una sua band e reclutò il giovanissimo fratello Dan al basso e alla chitarra e Kyle Minnick alla batteria. Altri componenti ruotarono e ruotano attorno alla band, specie per le esibizioni live, ma di fatto, le registrazioni in studio, sono con il citato trio e senza tastiere.
Premettendo che il sound della band risulta molto fresco e personale, è anche vero che certe influenze balzano piuttosto evidenti. Forte è l’impronta Beatles, ci sono i King Crimson e alcuni passaggi hanno il sapore di Echolyn, anzi forse più del progetto successivo Always Almost. C’è anche una componente anni ’80 trasversalmente avvicinabile alla new wave colta di XTC o Random Hold e su tutto un’aura retrò e psichedelica veramente interessante.
Mai molto lunghi, i nove brani del CD si attestato sui 5 - 6 minuti e si sviluppano con linee di cantato melodiose, ma non scontate. Le due chitarre bene si intrecciano alle ritmiche spesso complesse, seppur scarne di Minnick. Decisamente positivo il giudizio sui McGowan cantanti, con una voci calde, potenti e sempre ben presenti e precisi, sia nelle parti più pacate come nell’avvio di “Castle Builder”, sia nelle sezioni più piene come nella psichedelica e arabeggiante “The Moon” o nell’opener “Werewolves”. Da citare i molti passi crimsoniani a due chitarre come in “Big Al” (periodo Discipline) o in “The Clincher”, (Crimson più recenti) brano molto complesso e particolare.
Il disco è un ottimo esempio di come si possa fare un disco moderno e decisamente attuale, partendo da criteri e metodologie del passato e proponendo tutto con orecchio giovane e ispirato, creando un percorso di crossover, spesso inedito. Percorso che, per certi versi, presenta affinità con gli italiani J’accuse, non intendo in termini musicali, se non parzialmente, ma solamente come approccio e tentativo di utilizzo moderno di forme di progressive definite e ben specifiche.
Bel disco, intelligente e moderno, assolutamente consigliato.
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Roberto Vanali
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