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SIMAKDIALOG |
Demi masa |
Moonjune |
2009 |
INDN |
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E’ dal 1993 che questa band scorrazza per terre e mari dell’Indonesia. E, come la terra dalla quale proviene, trattiene un ché di irraggiungibile di esotico e di particolarmente affascinante. Giunti al quinto album, secondo con la MoonJune, i SimakDialog ci presentano un album nel quale la matrice jazz si unisce a temi etnici, di folk locale e di psichedelia chitarristica. E la girandola di passioni coinvolgenti e sincere, si trasforma in una traccia dal colore e dal sapore noto e rassicurante della terra lambita dal mare, ricca di anse, di golfi, di coste frastagliate, bocche di fiumi selvaggi, piante e tronchi esili, in apparenza, ma potentemente ramificati e stabili sotto la calma superficie.
L’ascolto dei brani dei SimakDialog e’ evocativo di elementi vari che provengono dai Weather Report, in particolare in certi utilizzi tastieristici memori di Zawinul, da forme chitarristiche di alto profilo, richiamando alternativamente maestri quali Terje Rypdal, John McLaughlin, Phil Miller. Non mancano accenni sonori a Frank Zappa o agli Oregon o al Canterbury Sound, ma in questo caso (come in altri) poco importano i grandi nomi del passato: tante sono le anomalie sonore che personalizzano la proposta, rendendola per molti versi unica. Iniziamo dal fatto che la band non presenta batteria, ma due percussionisti di grande maestria e precisione (nel secondo brano addirittura i percussionisti diventano tre). Strumentisti riempitivi, ma non invasivi, dal tocco sempre misurato, che mai rubano spazio a tastiere e chitarre. Le percussioni sono però l’elemento di distinguo grazie alle moltitudini di sonorità esotiche tra pelli e metalli, gamelan, metallofoni, clap, campane e toys vari.
Pur essendo la band importata verso l’improvvisazione non ci sono accenni free o sbarazzini e, anzi, non mancano momenti persino “orecchiabili” con tratti di lunge jazz che strizzano un occhio a dave Stewart degli Hatfield And The North, ammorbidendo i temi in un salotto dai leggeri toni psichedelici, come nella lunga suite “Tak Jauh Pertama / Tak Jauh Kedua”: un vero chillout tecnicamente ineccepibile. Grandissimo il lavoro del group leader Riza Arshad sia all’inseparabile piano elettrico Fender Rhodes, sia al piano acustico. Da applausi anche il lavoro di Tohpati alle chitarre che gestisce al meglio gli spazi a lui assegnati. Gia si è detto di Endang Ramdan e Erlan Suwardana alle percussioni, che con il basso di Adhithya Pratama rappresentano una sezione ritmica davvero unica e personale.
Jazz dal sapore antico eppure fortemente contemporaneo grazie alla fusione degli elementi suddetti. Un lavoro particolare, forse un po’ pesante in lunghezza, ma con grande fascino sonoro. Consigliato.
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Roberto Vanali
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