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LUKE STONE Somethin's gotta give autoprod. 2009 USA

Piuttosto sconosciuto Luke Stone, ma con questo “Somethin's Gotta Give” è arrivato alla sua quarta uscita. Lui è un multistrumentista proveniente dal Kansas e propone una musica piuttosto complessa ed elaborata nelle forme e nelle strutture, con provenienza jazz fusion, funky, ma anche con elementi crimsoniani, jazz rock e con momenti di alto tecnicismo. Pur coerente con i precedenti lavori questo nuovo disco si distacca per un maggior apporto progressivo, riavvicinandosi maggiormente all’impronta più jazz rock (Weather Report - Brand X) del primo, e distaccandosi dai temi più funky fusion del secondo e del terzo. Altro elemento di novità alcune tracce cantate, sei su nove, per la precisione. Ciò che sicuramente non ha subito variazioni sono la sua enorme energia e la sua notevole intraprendenza che, in un turbine narcisistico, lo porta a suonare e cantare ogni cosa presente sul disco. Piccole eccezioni un paio di guitar solo, un movimento di sax, un backing vocals e un lead vocals, per il resto 50 minuti di travolgente perfezionismo musicale, nella serie: “faccio tutto io”. Il bello è che questo “tutto” è fatto decisamente bene, utilizzando il proprio studio privato denominato Stone Lab Records. L’impatto sonoro, ricchissimo, denota molta attenzione per la parte ritmica che risulta sempre precisa, complessa (tempi dispari a profusione) e mai banale a partire dagli strappi quasi math rock dell’opener “Everything's Negotiable”, per arrivare al poderoso, frammentato e intrigante finale di “Cheap Shot”, passando per brandelli alla Zappa, Mahavishnu, Weather Report e persino Soft Machine del periodo “Bundles”, ma rivedendo tutto con una decisa strizzata d’occhio al funky tipico di band come gli Umphrey's McGee. Non manca qualche parte dalle aperture più sinfoniche e tastieristiche come nella seconda splendida sezione di “Reveal”, dove troviamo addirittura un utilizzo tastiere/ritmo che ricorda alcune parti strumentali di “Wind And Wuthering” dei Genesis. Particolare è anche la prima parte dello stesso brano con chiare reminiscenze degli XTC periodo Todd Rundgren. Decisamente positivo e travolgente il funky fusion della minisuite “Should Be Easy” con intermezzi strumentali di puro divertimento. Come si può intendere il disco mi è piaciuto, l’ho trovato interessante e lo ascolto al di là delle necessità recensorie. In effetti, vista la complessità e la varietà delle trame, è il disco stesso a richiedere più ascolti e confesso che nessuno di essi mi ha mai fatto interrompere l’ascolto prima della fine naturale, lasciandosi godere tutto di filato.



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Roberto Vanali

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