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SIENA ROOT |
Different realities |
Transubstans |
2009 |
SVE |
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Se il colore del blues è il blu, quello dello hard rock è il nero ed il reggae ha i colori pan africani, allora la musica realizzata da questa band ha i colori di Siena. Così i Siena Root spiegano le origini del loro nome che si ispira al classico colore del tufo che costituisce il tappeto di terra che ricopre la piazza della città i giorni del Palio, ma che è anche il colore prevalente della campagna toscana nei mesi invernali. In effetti "terroso" è un aggettivo che si addice splendidamente a questa musica, perché richiama un sound sporco e vicino alle radici del rock. Questo è il quarto album in studio dei Siena Root e si compone di due soli pezzi di circa 25 minuti, divisi solo per comodità dell'ascoltatore in varie parti, che occupano quindi i due lati di un ipotetico vinile (preciso comunque che esiste in effetti anche la versione in vinile, per chi fosse interessato). Quindi già formalmente la band ama mettere le cose in chiaro: ci si deve aspettare una cascata di suoni analogici e vintage che ci proiettano verso il passato. Il risultato non è un mero album retrò per nostalgici ma una scatola musicale che traspira fragranze e sensazioni dense di feeling e di groove. Il suono dei Siena Root si basa su generose dosi di Hammond, accattivanti riff di chitarra ed è imbibito da una densa coltre di fumi psichedelici. L'intero album somiglia ad un viaggio catartico nei recessi dimenticati dell'inconscio o meglio ad una vera e propria esperienza lisergica che parte da "We", il lato più elettrico e forte dell'album, e che prosegue sul "lato b" con "The road to Agartha", il momento più acustico e psichedelico, che gioca su loop, ripetizioni ipnotizzanti e contaminazioni col raga indiano. In questa miscela di suoni e colori che stordisono ed ammaliano si inserisce splendidamente la voce calda e blues di Janet Jones Simmonds, nuovo grande acquisto per la band, che potrebbe ricordare per certi aspetti quella mascolina di Inga Rumpf dei teutonici Frumpy oppure quella di Lydia Jamene Miller degli americani Fantasy. In realtà la voce di Janet è molto più vellutata e meno graffiante ma risulta comunque di grande spessore. La prima parte dell'album è più solida e seducente, la seconda parte, interamente strumentale, è molto più mistica ed oscura. L'incipit del viaggio verso Agartha, "Bairagi", è quasi doom, con riferimenti che rimandano persino agli Opeth ma presto si trasforma in qualcosa di acustico, con le percussioni flessuose delle tabla su cui danzano le vibranti corde del sitar, suonato da Stian Grimstad. Per la maggior parte della sua estensione, la suite si compone di progressioni acustiche in cui vengono mescolate influenze etniche diverse, mentre nella sequenza di chiusura, "Jog", avviene la fusione fra sequenze acustiche, etniche, indiane, con le parti elettriche, in un insieme coinvolgente e vibrante che rappresenta forse il momento più originale e spettacolare dell'intero album. Bellissimi in particolare sono gli assolo lanciati fra la chitarra elettrica ed il flauto di bambù indiano. Qualcosa del genere era stata già provata dai Grovjobb ma qui i suoni acquistano una potenza sicuramente superiore e molto più tarata sullo hard blues. Un album fatto di sensazioni, di vibrazioni, molto emotivo e live oriented, dominato da suoni e tendenze del passato che riesce a penetrare l'anima dell'ascoltatore.
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Jessica Attene
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