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ACANTHE |
Someone somewhere |
Musea |
2009 |
FRA |
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Fra gli obiettivi che Musea sembra essersi posta, è molto lodevole quello di recuperare classici (e non) della scena progressive francese degli anni ’70. Quello che abbiamo fra le mani è il sunto di 5 anni di lavoro (dal 1973 al 1977) degli Acanthe che, all’epoca, non ebbero modo di vedere pubblicato alcun loro lavoro.
Grazie al principale compositore del gruppo, Frédéric Leoz, 9 preziose gemme musicali sono tornate alla luce e, adeguatamente “restaurate”, messe su cd.
9 composizioni perfettamente inserite nel contesto artistico mid-seventies, ma godibili ancora oggi ad oltre 30 anni di distanza. Quando la musica è di qualità i segni del tempo sono come le craquelures sui quadri del rinascimento: ne aumentano il fascino.
Un aspetto importante e, a mio avviso, condizionante in termini positivi è che il cantato (in inglese ma anche, e a maggior ragione, in francese) non è mai “recitato” o enfatizzato oltre misura (difetto, ribadisco, di molte band francesi dell’epoca) e questo rende la proposta magari meno personale, ma più godibile e fruibile. Bene così quindi.
L’album non presenta alcun momento di scarsa ispirazione. Molto bella la title track con la contrapposizione tra chitarra elettrica e tastiere (Hammond soprattutto) a sfiorare l’hard rock nella prima parte, con nette reminiscenze genesisiane poi e con un finale fra Doors e Led Zeppelin.
Altri brani come “Object de cire” e “Meg Merrilies” ci chiariscono come le muse ispiratrici dei ragazzi francesi fossero anche i Pink Floyd, forse i Camel, con il vantaggio che questo “abbeverarsi” oltre Manica avveniva in contemporanea alle migliori produzioni di questi e molti altri gruppi e la “fonte” nutriva molte band sparse per il mondo (si pensi alla nostra Premiata Forneria Marconi con i King Crimson ad esempio).
Dimostrazione ulteriore, semmai fosse necessario, che gli anni settanta dal punto di vista musicale furono tra i più creativi e fecondi sebbene la “letteratura modernista” tenda sovente a dimenticarselo.
Ma torniamo agli Acanthe. Fra spruzzate “etniche” ("Touch the sun") con chitarre gilmouriane, sottili rimandi psichedelici ("Suspension"), suadenti e malinconiche melodie ("Oiseau de feu"), abbiamo la gamma completa delle tinte di un album che avrebbe meritato la ribalta 3 decenni orsono, ma che conserva anche oggi una propria dignità e una ragion d’essere, senza rimpianto alcuno.
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Valentino Butti
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