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L’IMBROGLIO Dis/Integrato M.P. Records 2010 ITA

Sotto lo pseudonimo de L’imbroglio, si cela Lucio Bonaldo. Batterista e compositore veneto, non molto noto, ma con all’attivo alcuni lavori molto personali.
L’esordio nel giro progressivo, sempre come L’Imbroglio, è avvenuto con la partecipazione ai tributi della Mellow Records alla musica di Canterbury e ai King Crimson. Dopo due full length, tesi, difficili, vari e, ovviamente, senza successo alcuno: Nel 2005 “Introspettivo” e nel 2007 “Krar Qelt”. Il fatto di puntare coerentemente a proseguire il discorso intrapreso non ci fa che piacere, così possiamo assaporare questo Dis/Integrato, formato da quindici “pensieri sonori” come li definisce lo stesso autore. In effetti la variabilità di durata dai due minuti scarsi della più breve “La Marcia”, ai quasi dodici della più lunga “Chant Noir” rende proprio l’idea di una serie di spezzoni visionari e obliqui talvolta vicini al sogno, talvolta vicini al pensiero sfuggito e volante. All’interno, piccole impressioni musicali vicine all’intimismo minimale, ma anche furibonde sfuriate di free jazz e di improvvisazioni world-etnico-percussivo con forte incidenza della dissonanza e dell’elucubrazione sonora più ardita, ammiccando anche a forme noise di estrazione zorniana, al R.I.O. più beffardo, incostante e meno permissivo e al Canterbury softmachiniano della middle era.
Da ciò si può già capire che il lavoro è complesso e merita un ascolto approfondito e cosciente. Nulla è diretto o subisce tentativi di semplificazione, eppure le parti si innestano con semplicità stilistica di grande maestria, tramutando il tutto in una lunga opera senza soluzione di continuità.
Oltre al titolare del progetto oltre alla batteria e percussioni, si spinge anche alla tromba, altri diciassette strumentisti si alternano a creare i contorti e sognanti affreschi. Tra loro spicca il chitarrista Gi Gasparin, corresponsabile anche della scrittura di alcuni brani, come il pianista Federico De Pizzol.
Complessivamente sono gli aspetti più tormentati a colpire maggiormente. Sottolineo “Laing Opera” con echi della teatralità avanguardistica francese Wakhevitch, Chene Noir. “Ixzi” dove nonostante una serie di fiati tondeggianti non è permesso il superamento di una traiettoria introspettiva che inevitabilmente ricade su se stessa, arrotolandosi in un cupo e devastante scenario Zorn/Beefheart. La lunga e conclusiva “Chant Noir” dove l’avanguardia viene coperta e scoperta di drappi, presi da minimalismi contemporanei, da sequenze di note che riportano a qualcosa di noto, che tentano di creare un approdo sicuro, ma che in realtà sono parte di un’onda sonora, che può solo allontanarci da zone sicure per riportarci nel più temibile maelstrom. Neppure il mellifluo flauto di Bresolin, ci salverà.
Disco cupo, difficile, spesso indigeribile eppure ricco di fascino nascosto e disintegrante. Scelta coraggiosa, per pochi, in effetti.



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Roberto Vanali

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