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MARS HOLLOW |
Mars hollow |
10t Records |
2010 |
USA |
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Forse c’è vita su Marte. Non lo dicono gli scienziati, né qualche bizzarro ufologo convinto dell’esistenza di improbabili omini verdi. Lo dicono invece i Mars Hollow, band composta da quattro musicisti californiani che pubblicano il loro primo omonimo album scegliendo per la copertina, in perfetta coerenza con il nome adottato, un desolato e arrossato paesaggio marziano. Tutt’altro che arida è la musica proposta, identificabile più facilmente con l’infuocato cielo sovrastante il suddetto paesaggio.
Non certo dei giovincelli, e convinti sostenitori (a giudicare dalla musica proposta) di un ipotetico assioma che dice che nel progressive rock ormai c’è poco da inventare, i Mars Hollow confezionano quasi sessanta minuti di ottima musica le cui influenze dei grandi gruppi del passato sono abbastanza evidenti. Non bisogna però farsi fuorviare, è facile infatti rimanere sorpresi da quello che, fortunatamente, viene posato sull’altro piatto della bilancia. I Mars Hollow non ripetono pedissequamente i soliti clichè, evitano di cadere nel pacchiano e, soprattutto, scrivono grande musica. A partire da “Wait for me”, con una chitarra frippiana a fare da apripista a suoni che ricordano gli Yes e una voce (del chitarrista John Baker) ispirata chiaramente a quella di Geddy Lee, è chiaro che ci troviamo di fronte ad un prog molto vario anche se non troppo originale, con incursioni nell’AOR che non guastano affatto l’atmosfera e rendono il sound del gruppo molto “americano” e carico di enfasi melodica. “Eureka” ha inizialmente sonorità più classiche ed “europee”, per poi basarsi sul solito tripudio di temi derivanti da un’evidente passione per Yes e Rush. “In your hands” può ricordare in alcuni momenti i Genesis più melodici (ed è l’unico brano nel quale la voce solista è quella del bassista Kerry Chicoine) ma si concede addirittura una citazione da Tarkus. “Wild animal” potrebbe quasi sembrare una outtake dei Rush del periodo più progressivo, con un bel refrain epico difficile da scordare, mentre la conclusiva “Dawn of creation” riepiloga egregiamente un disco ben scritto e ben suonato, nel quale i brani non sono frutto di un semplice taglia e incolla di temi, ma di un sapiente lavoro di testa e di cuore.
Se cercate l’originalità a tutti i costi i Mars Hollow non fanno per voi, se invece pensate che sia possibile guardare al passato scrivendo ottima musica, volete fantasia e qualcosa di più di un semplice esercizio di prog-style, allora avete trovato un disco perfetto.
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Nicola Sulas
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