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TCP |
The way |
10T Records |
2009 |
USA |
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Alle prime note della traccia di apertura di quest’album (“You can never know”) sono andato a spulciarmi i nomi dei musicisti, dato che mi ha colto il sospetto di stare ascoltando un side-project dei The Watch; questo sospetto mi ha colto sia per il tipo di musica che stava uscendo dagli altoparlanti, ma soprattutto per il timbro di voce del cantante, che ricorda molto quello di Simone Rossetti. In realtà i TCP (che sta per Temporal Chaos Project) sono tre musicisti non giovanissimi del Nord Est degli Stati Uniti, per la precisione Henry Tarnecky (voce), Blake Tobias (tastiere, basso) e Jack Wright (chitarra, batteria). A dire il vero, poi, la musica di questo “The way”, album d’esordio del trio, pur affondando decisamente le proprie radici nel Prog sinfonico di stampo Genesis/Marillion, ad un ascolto un minimo più prolungato, non si può esattamente dire clonata dai nostri The Watch, dato che comunque i TCP non sentono il deciso bisogno di assomigliare in maniera devota ai propri modelli ma riescono a mantenere una certa dose di personalità. Le 11 canzoni qui contenute, per un totale di oltre 70 minuti, solleticano continuamente i nostri riflessi pavloviani di Prog-lovers ma non si fermano a questo: le composizioni che qui ascoltiamo oscillano tra una gradevole complessità e un contorcersi di temi che a volte risulta un po’ pesante, con momenti in cui possiamo quasi sentire echi dei Gentle Giant o altre in cui ci vengono addirittura alla mente i vecchi Kyrie Eleison. L’uso della strumentazione è equilibrata, senza sbilanciamenti: il Mellotron è usato con parsimonia ma si sente, potenziando il sapore retrò dell’insieme, pur non imponendo prepotentemente la propria presenza. Come accennavo in precedenza, talvolta la situazione sa fa un po’ pesante: non che ci siano lunghe composizioni in quest’album (il picco è rappresentato dai 10 minuti e mezzo di “She”, ma la media durata si aggira sui 7 minuti), ma talvolta è necessaria una dose d’attenzione supplementare per star dietro alle varie fasi musicali. Questa cosa dovrebbe far capire che il gruppo non fa molto perno sulla propria vena melodica o su melodie di facile presa e che quindi non si tratta di un album ruffianotto, da liquidare tra la folta schiera di cloni. Al tempo stesso tuttavia è necessario notare come il songwriting talvolta non sia ai massimi livelli di creatività, cercando forse di far leva sulle atmosfere più che su una composizione che si sviluppi in maniera -diciamo- logica. Questo tuttavia è un appunto minimo che mi sento di fare: l’album è sicuramente gradevole e il fatto che necessiti un ascolto supplementare è chiaro segno di qualità, soprattutto quando, una volta data questa ulteriore chance, ci troviamo per le mani un lavoro realizzato con buona tecnica, sapienza nello stuzzicare le giuste corde dell’ascoltatore, una bella ispirazione e, last but not least, una bella passione che viene indubbiamente percepita.
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Alberto Nucci
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