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ABACUS |
Destiny |
Musea |
2010 |
GER |
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Gli Abacus hanno una doppia vita. Una è quella passata che si è svolta dal 1971 al 1974 e che ha visto la pubblicazione di quattro LP e l’altra è quella attuale, che inizia nel 1979 con una reunion voluta dal bassista Klaus Kohlhase che prima rimette in piedi la band e poi la lascia nelle mani del tastierista Jürgen Wimpelberg. Se scorrete la line-up della band nelle sue due incarnazioni troverete che queste non hanno assolutamente nulla in comune proprio perché l’anello di congiunzione è caduto senza lasciare alcuna traccia discografica. Infatti la rinata band, dal 1979 al 2001, non ha pubblicato proprio niente. L’album del ritorno è di fatto “Fire Behind Bars” (2001) che contiene materiale inedito realizzato in tempi diversi dopo la reunion. Lo storico cantante della prima formazione, Chris Williams, più recentemente aveva deciso di tornare nella band, prendendo il posto di Manfred Heilman che se ne era andato, ma nel 2008, proprio quando stava scrivendo i testi per questo “Destiny”, morì. Così ci vollero altri due anni per finire i testi dell’album e per completare la formazione con un nuovo cantante, Stefan Mageney, e anche due nuovi chitarristi: Mario Schramme e Werner Schimaniak. La musica di questo nuovo lavoro è stata realizzata dal tastierista Wimpelberg che è a questo punto il membro di più antica data. Una vaga parentela con la musica degli anni Settanta può essere percepita ma si tratta di impressioni assai vaghe, a vedere bene. Il sound di questo album è totalmente calato negli anni Ottanta, anche in quei momenti che richiamano, attraverso poderosi svolazzi tastieristici, gli EL&P. Fondamentalmente un brano come “When I Depart”, la traccia di apertura, ci riporta più che altro a gruppi glamour e melodici come Styx, Journey e Toto o anche ai Three di Emerson Berry e Palmer. Tendenzialmente l’approccio della band è proprio quello appena descritto anche se lo spirito divertente e spesso cabarettistico, che a tratti emerge, aiuta a digerire meglio certe situazioni musicali a dir poco antiquate. Certe soluzioni teatrali, e anche un po’ pacchiane a dire il vero, possono invece far pensare ai Kayak. Non si può dire che il gruppo non sappia suonare: gli assoli snocciolati qua e là e le improvvise trovate strumentali, a volte quasi fusion, fanno pensare a musicisti disinvolti e preparati ma è proprio la concezione dell’opera a suonare sorpassata e quasi ridicola. Se le produzioni degli anni Settanta in linea generale possono apparire classiche alle nostre orecchie, lo stesso non si può dire di certe cose uscite negli anni Ottanta che, con le loro pretese di suonare futuristiche a tutti i costi, hanno finito con l’essere superate ben presto. “Destiny”, la traccia centrale, con i suoi cori simil-gospel che la rendono simile a un canto natalizio, è sicuramente un episodio da sotterrare, nonostante le tronfie sequenze tastieristiche che spuntano a metà del suo percorso. Un pochino meglio la lunga “The Light”, con il suo sound spaziale e gli inserti classicheggianti, anche se la taratura del lavoro l’avete a questo punto ben capita. Un disco simile può risultare divertente se siete nostalgici di certe situazioni musicali ma anche urticante se le mal digerite. Il consiglio che vi do è quello di buttarvi sui lavori degli esordi, ben più validi, eclettici e anche divertenti.
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Jessica Attene
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