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DAVE SINCLAIR |
Piano works 1 - Frozen in time |
Crescent Label |
2011 |
UK |
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Quando pensiamo al suono delle origini del Canterbury Sound, credo che un po’ di merito lo si debba dare anche Dave Sinclair, tastierista dei Caravan dell’epoca d’oro e non solo. Nonostante la sua carriera abbia avuto un avvio a dir poco glorioso, si può praticamente intendere bruscamente interrotta alla fine degli anni ’70, almeno per quanto concerne la composizione. Per il resto, non fu certo costellata da cose di buona riuscita come invece accadde a molti altri nati attorno al genere, anzi, a dirla tutta, alcune più recenti operazioni discografiche come solista risultarono davvero discutibili, con poche e povere idee, messe giù forse anche più malamente.
Negli ultimi anni Dave ha lavorato quasi esclusivamente in Giappone, collaborando anche con gruppi locali e con all’attivo anche un disco live con i Six North, dotata band di jazz fusion. Forse anche per i non buoni risultati dei due precedenti album, essenzialmente composti da canzoncine rock e non vorrei calcare la mano, ma davvero modeste, un recente guizzo compositivo sembra aver ripreso possesso delle mani del nostro eroe e qui ne abbiamo il risultato.
Come ci suggerisce il titolo il disco è composto da brani per solo pianoforte e il tocco magico degli inizi sembra davvero saltare fuori con eleganza e prepotenza. Le composizioni sono belle, ascoltabili, chiare e spontanee, non c’è nessun momento in cui le note sappiano di forzatura e tutto è molto distante dai “vabbè, visto che devo, facciamo questo disco”, no, l’autore in solitaria sembra trovarsi perfettamente a suo agio e tra le melodie scritte per il lavoro saltano fuori momenti delicati e sfaccettati, intensi e al contempo tenui nelle loro spesso appena palpabili ed emozionanti partiture.
A tutti gli effetti bisogna mettere sui piatti della bilancia se sia più gravoso l’onere compositivo per un disco elettrico con band al completo o se lo sia un lavoro come questo gestito in maniera autonoma dalla prima all’ultima nota. Sinceramente non saprei, ma io credo che lo sforzo necessario per questa produzione sia stato grande e che l’ex ragazzo di “Nine feet underground” qui abbia dato tantissimo. Le capacità melodiche e compositive saltano fuori evidenti in tutti i dieci brani, che vanno a formare uno splendido affresco di quella che è l’attuale concezione armonica dell’autore. Sono brani notturni, riflessivi, carichi di pathos, dove l’emozione sale in maniera quasi commovente e nei quali, di tanto in tanto, sembra di scorgere un tentativo di richiamo melodico a cose del passato, ma è l’impronta generale, è il suono, è il carico di dolce nostalgia che portano queste note a risvegliare chissà quali fantasmi sopiti nell’anima. Nella scheda dell’etichetta viene citato Mendelssohn. Sì, poi allargherei a Debussy a Schumann, ma non è solo il tocco di classicismo a fare il lavoro, è anzi molto frequente e per nulla celata, un bella impronta jazz e come poteva essere altrimenti, viene da dire. La notevole qualità compositiva, mi fa scattare la curiosità e penso che sarebbe interessante ascoltare alcuni brani con un arrangiamento più ricco da orchestra o da band, ma poi risentendo queste sequenze così immaginifiche, penso sia un bene che siano solo per pianoforte. Le uniche variabili sono l’inserimento di qualche lieve tappeto di string synth in quasi tutti i brani mentre, la sola “Shine its light”, vede la presenza del flauto di Jimmy Hastings dolce, accattivante, ricco e prodigo di ricordi.
Veniamo ad un commento sui brani. La lunga (oltre nove minuti) title track è a dir poco magica e tra i suoi temi classici, saltano fuori grappoli di note non solo canterburyane, ma anche crimsoniane con rimandi lucidi a certe diteggiature di Keith Tippett. “Canterbury” è un gioiello di dinamica avvolto in drappi di lirica bellezza. “Obama Barcarolle II” è una nuova “O Caroline”, avvenente, sincera, scatenante un vero fardello di sensazioni positive. Da brivido la linea melodica di “Let life begin” così ricca, tormentosa e liberatoria assieme.
Disco tutto bello, persino prodigioso, forse da ascoltare solo in certi momenti, per farsi riempire, liberare, struggere, legare, ammaliare, emozionare e commuovere. Sì, ecco, commuovere.
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Roberto Vanali
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