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Quarto album per i peruviani Flor de Loto, che registrano l’ingresso di Carlos Llontop al posto dello storico batterista Jorge Puccini. Tenendo conto che nel precedente “Mundos Bizzarro” (2009) il flauto era passato dalle mani di Johnny Pérez a quelle di Junior Pacora, della formazione che esordì con un album strumentale omonimo nel 2005 rimangono proprio i due fondatori storici: il chitarrista Alonso Herrera ed il bassista Alejandro Jarrin. Come gli aficionados ben sapranno, a partire da “Madre Tierra” (2007) Herrera è diventato anche il vocalist della band. Il sound prosegue sulle linee tracciate due anni addietro: una musica sempre più dura, compatta, dalle melodie immediate e parecchio catchy, capaci di poter interessare una gamma di ascoltatori molto ampia. Con “Imperio…” l’etichetta di prog-folk appare definitivamente inappropriata o comunque limitativa; nonostante siano sempre ben udibili gli elementi tipici sudamericani, grazie soprattutto al flauto che è sempre più protagonista, potremmo ormai definire i musicisti di Lima degli hard-progsters a tutti gli effetti, tendenti addirittura a delle sonorità heavy. Che l’intento di Herrera e Jarrin fosse quello di puntare ancora di più su un impatto “frontale” e sul coinvolgimento adrenalinico, è ulteriormente avvalorato dalla presenza costante della chitarra ritmica di Ignazio Flórez ed anche dall’inserimento di un secondo chitarrista solista in un paio di pezzi, l’argentino Emiliano Obregón (autore di due album più un demo). In passato era stato fatto un accostamento abbastanza forzato ai Jethro Tull, come se fosse bastato l’elemento del flauto a permettere certi paragoni; ma ad essere sinceri, l’apertura della strumentale “Mosoj Pacha (Nuevo Mundo)” porta alla mente le melodie energiche contenute in “Stand up” di Ian Anderson e compagni, per poi lasciarsi andare ad un crescendo che sfocia nel prog-metal, con un epico commento finale recitato proprio dallo strumento a fiato. Gli altri strumentali, “El Jardín Secreto” e soprattutto “Labirintos”, sono dei brani sfrontati, con ritmiche tanto pesanti quanto agili, in cui Pacora, grazie – se mi si passa il neologismo – a delle acrobazie “flautistiche” in cui non teme alcun paragone con colleghi illustri, apre la strada alle impennate delle sei corde di Herrera, spesso suggellate dalle note soliste del basso di Jarrin. Timbriche limpide ed allo stesso tempo veraci, che lanciano chi ascolta in un autentico stato di esaltazione. I pezzi cantati, molto probabilmente per via delle sonorità e soprattutto della lingua, portano alla mente gli spagnoli Albatros, che con il loro secondo album “Ursus” hanno anch’essi dato alle stampe nel 2011 un gran bel lavoro. Come nel caso dei catalani, le canzoni potrebbero apparire quasi “infantili” nella loro enfasi, elemento comunque tipico dell’epicità ispanica. Resta il fatto che il feeling contenuto in brani come “Despertar” o i quasi dieci minuti della conclusiva “Hasta el Final” (entrambi con Obregón) è assolutamente ammirevole. Da segnalare, tra le varie cose, i sinfonismi andini di “Mar Amargo pt. I & pt. II”, dove Pacora, nella seconda parte, esplode ancora una volta in un assolo terribilmente trascinante. Superfluo andare oltre. Vi sono piaciuti i precedenti lavori? Allora vi piacerà anche questo, a meno che, improvvisamente, non vi sia passato per la testa che se un gruppo suona un po’ più “duro” non sia prog e quindi non meritevole d’ascolto. Ma sarebbe un grosso torto ai Flor de Loto. Come al solito, interessante la copertina; una specie di fumetto psichedelico dai contorni ben definiti, un po’ spaziale, che a pensarci bene potrebbe anche rappresentare un’evoluzione in chiave moderna delle pittografie inca.
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