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TRICANTROPUS |
El sueño de Arsinoe |
Mylodon Records |
2011 |
SPA |
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Col nome di Arsinoe troviamo nella storia e nella mitologia greca diversi personaggi, quello raffigurato nella copertina di questo album è però quello di Arsinoe II che fu regina di Egitto assieme al fratello e marito Tolomeo II nel III secolo a.C. A parte questa notazione didascalica non so cosa altro aggiungere circa il legame che intercorre fra Arsinoe e il secondo album dei Tricantropus perché le nove canzoni che lo compongono sono essenzialmente strumentali. In poche occasioni interviene alla voce l’ospite Esperanza Martin aggiungendo un tocco particolarmente interessante agli ampi tappeti strumentali ai quali la band ci aveva abituati e mi riferisco in maniera specifica alla splendida “Manderley”, una ballad soft jazz con belle aperture sinfoniche impreziosite da una performance vocale davvero intensa. La formula musicale ricalca in buona parte quella dell’esordio attraverso la riproposizione di sonorità ampie e distese che trovano il loro principale punto di ispirazione nei Camel e nei Pink Floyd. In questo senso la morbida traccia di apertura, la title track, materializza al massimo questa poetica. Al centro della band rimane il trio costituito da Javier López Pardo (chitarra, tastiere, programmazione), Pedro Párraga (basso e tastiere) e Manolo Manrique (piano, organo, synth), l’ultimo dei quali viene ricordato nella line-up dello storico gruppo degli Azahar. A questi si vengono ad aggiungere in pianta stabile il chitarrista Daniel Denis (che immagino si tratti di un omonimo del più celebre musicista belga) ed il batterista Luis Hidalgo e, come per l’esordio, si nota inoltre la partecipazione di una ricca schiera di ospiti, fra i quali spicca il tastierista dei Senogul Eduardo García Salueña che presta la sua opera in un paio di tracce. Ad essere precisi il grosso degli ospiti lavora ad un massimo di quattro canzoni con un picco di partecipazione che si registra in “Señoras”, una traccia che si discosta un po’ dalla media dell’album, con impasti soft fusion che ricordano a tratti i Dixie Dregs, con tanto di violino, sax alto, una sofisticata e calda chitarra solista alla Gary Moore e guizzi tastieristici sul finale. L’uso delle tastiere è come sempre ben rappresentato e le troviamo costantemente sullo sfondo a fare da base di accompagnamento e solo occasionalmente a fornire abbellimenti più particolareggiati e a disegnare le linee melodiche che rimangono a carico principalmente di una chitarra alla Latimer. I paesaggi sonori disegnati sono molto belli ma a volte la loro eccessiva dilatazione crea dei vistosi cali di attenzione facendo risaltare i momenti più articolati, in cui si vede una maggiore interazione strumentale, come colline che svettano nel contesto di paesaggi oltremodo piatti. Un esempio di ciò può essere la lunga “Plan 9 from Outer space”, impreziosita dagli assoli di Eduardo García Salueña e dall’oboe di Didi Arpaia, o la traccia di chiusura, abbellita dai morbidi vocalizzi di Esperanza Martin. In sostanza questo secondo album dei Tricantropus mi ha entusiasmato molto meno rispetto all’esordio e credo che, se il gruppo vorrà andare avanti in maniera credibile, dovrà spremere di più le meningi. I paesaggi Cameliani sono molto belli ma in questo caso non raggiungono il lirismo degli esordi. Inoltre la bella performance di Esperanza in “Manderleyn” lascia un po’ l’amaro in bocca perché una partecipazione di questa artista più estensiva avrebbe forse fatto una bella differenza. Questo mi sembra il classico album di transizione in cui le idee sono disegnate solo a metà, spero quindi che il disegno si completi a colori vivaci e a disegni più fantasiosi con il prossimo album.
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Jessica Attene
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