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MAELSTROM (USA) Maelstrom Black Moon 1973 (Black Widow 2013) USA

Da alcuni anni ormai la Black Widow Records di Genova non solo produce e distribuisce lavori di gruppi parecchio interessanti (senza pensarci troppo… Il Bacio della Medusa, gli Psycho Praxis, i Crowned In Earth solo per citarne qualcuno), ma si adopera per il recupero e la ristampa di lavori di band “minori” degli anni ’70 con un occhio di riguardo, più che doveroso, alla qualità.
Perché se è vero che il fattore fortuna può aver giocato la sua parte per impedire il successo sperato a molte band malgrado le ottime doti, sarebbe comunque sbagliato effettuare un’operazione di recupero storico generalista e senza sostegno qualitativo. Il rischio con l’unico (?) album degli americani Maelstrom non sussiste, trattandosi di prog rock di squisita fattura, giunto, tra l’altro nei “tempi giusti” essendo stato pubblicato nel 1973 con il titolo di “On the gulf”. Un album che dimostra una volta di più che il prog statunitense ha avuto un ricco e florido sottobosco e che non è SOLO Kansas e Styx, le due arena-band più conosciute. E tutto ciò senza scomodare Pavlov’s Dog, Happy The Man o Cathedral ed i loro riconosciuti capolavori che un appassionato di progressive sicuramente conosce.
Ma scavando appena troveremmo band come Atlantis Philarmonic, Ethos, Chakra, Yezda Urfa per non parlare di Fireballet, Babylon, Mirthtrandir, Easter Island oppure Asia (quelli americani, nulla a che vedere con Downes e soci). Alcuni di questi addirittura senza una ristampa in CD che li possa fare conoscere ai più curiosi.
Ma torniamo a “Maelstrom”. L’album si apre con “Ceres” in cui impasti vocali ci rimandano senza troppa fatica ai Gentle Giant. Una sezione ritmica mai invadente e decisi inserti di flauto e sax non sono che la ciliegina sulla torta di un brano che, in neanche 6 minuti, ben esprime il talento del sestetto a stelle e strisce.
Note di sax, a tratti disturbanti, Hammond e cascate di mellotron impazzano nel superbo strumentale “In memory”. “Alien” (la quarta traccia) ha “parenti” nell’hinterland di Canterbury. Delle mirabili aperture sinfoniche ed una sottile (e mai ostentata) vena sperimentale sono il fiore all’occhiello dell’ottima “Chronicles”.
“Nature abounds” presenta delle belle armonie vocali su un tappeto musicale prevalentemente acustico e molto raffinato.
Splendida anche “Below the line” con chitarre acustiche, flauto, piano ed un bel finale in crescendo con “solo” di chitarra di ottima fattura.
Le due tracce finali, come detto, appartengono ad un altro periodo della storia della band, ora ridotta a quartetto , ma sempre con due tastieristi : Roberts Owen (della formazione originale) e Kent Overholser.
“Opus none”, scritta dal primo, ovviamente keyboards-oriented (EL&P?) e con una piacevole aura barocca.
“Genesis to Geneva” con una vena più spiccatamente jazz-fusion e sa quasi di improvvisazione.
Con questi 10 brani abbiamo scoperto il “vortice” sonoro di questo gruppo americano che ha avuto solo “one shot”, ma ha fatto pienamente centro.



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Valentino Butti

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