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PERIFERIA DEL MONDO Nel regno dei ciechi Immaginifica 2013 ITA

Quarto lavoro della Periferia del Mondo, che ormai porta in giro il suo nome da ben diciassette anni. Nati a Roma nel 1996, da allora di cose importanti ne sono accadute, come ad esempio l’ingresso nel 1999 del poliedrico fiatista e cantante Alessandro Papotto nel glorioso Banco del Mutuo Soccorso. Dopo due album in cui era possibile ammirare un caleidoscopio che spaziava dal neo-prog al folk, passando per ottimi esempi di progressive sinfonico anche grazie all’apporto dei prestigiosi ospiti, con il terzo omonimo del 2006 si usciva per la Electromantic Music, etichetta di un altro personaggio di spicco come Beppe Crovella, tastierista degli Arti & Mestieri. Oggi, dopo la partecipazione anche ad importanti festival del settore, “Nel regno dei ciechi” (che presenta una copertina rubata a qualche pubblicità per oculisti!) viene pubblicato per Immaginifica, “diramazione prog” della Aereostella, cioè la label di Franz Di Cioccio, celeberrimo componente della PFM. Tutti elementi che fino ad oggi hanno ulteriormente contrassegnato una forte adesione alla tradizione, esplorandola però a fondo in tutte le sue parti in modo molto attento e con grosse capacità.
Come già accennato, tutti i lavori della Periferia si sono contraddistinti per un forte eclettismo stilistico e quindi non deve stupire che dal sesto brano in poi quest’album sembri cambiare la propria vena compositiva rispetto alla parte precedente. I primi responsi degli addetti ai lavori sono stati unanimi soprattutto su un punto: i musicisti per quest’ultima fatica hanno puntato sull’impatto diretto, con riff più robusti ed un sound che nelle intenzioni sarebbe voluto essere assai più concreto. Nelle intenzioni, appunto, perché in pratica non sempre questo riesce. Nonostante tutto, c’è una sorta di “lindore” generale che dà la sensazione non troppo gradevole di assistere a dei signori distinti che di punto in bianco giocano a fare i duri… Divertente, per qualcuno. Per altri, un po’ meno. I validissimi protagonisti, quantomeno, non cadono nel ridicolo – ci mancherebbe pure altro! –, però l’impressione è che abbiano voluto dare il colpo un po’ al cerchio ed un po’ alla botte. “Sakura senzen” si rifà in maniera inequivocabile ai Pink Floyd di “The division bell”, qualcuno ha citato pure i Roxy Music, e nella sua appariscente formalità risulta pure assai gradevole.
“I need U” si apre con il riff pesante di cui sopra, ma oltre a riportare un titolo da sms… anche i testi non si distinguono affatto per profondità. Inoltre qui sembrerebbe di sentire dei Genesis più rockeggianti, con intermezzi a la Red Hot Chili Peppers, evidenziando una costante di cui bisognerà tenere conto per tutto l’album: il basso di Claudio Braico è l’autentica spina dorsale dell’intero lavoro ed in un modo o nell’altro questo incide non poco su vari aspetti (essenzialmente positivi, in questo caso). La seguente title-track continua sulla stessa strada, correggendo però notevolmente il tiro. Il testo in italiano, difatti, si pone meglio di quello precedente in inglese, affronta tematiche maggiormente complesse, la musica spazia molto di più secondo le enormi potenzialità dei musicisti, anche se il cantato ricorda molto una certa vecchia impostazione prog italiana che non era molto esaltante (anche se qui, per fortuna, c’è molta più concretezza, anche nelle tematiche narrate). Ancora durezza mediamente scontata nell’inizio della strumentale “The bridge’s resilience”, a cui fa seguito tutta una serie di partiture nettamente migliori, che riportano i nostri in carreggiata.
La lenta “Purity” intervalla dei momenti crescenti ad altri che in ampia parte sembrerebbero le musiche di qualche pubblicità di incensi visibile a notte fonda su reti commerciali minori e, francamente, nonostante l'effetto per un po' risulti piacevole, sei minuti e mezzo sembrano davvero troppi.
Finalmente si arriva agli oltre dodici minuti di “Suburban life”, dove le lunghe parti strumentali parlano davvero da sole, soprattutto i fiati suggestivi di Papotto. Ancora grande musica in “A rutta u jelu”, in cui uno scacciapensieri dà vita ad un altro brano senza cantato che per fortuna recupera finalmente la parte folk del gruppo, evidenziandosi come forse il momento migliore in assoluto.
Il solito minuto di “Suburban landscapes” lascia presto il posto alla conclusiva “Alibi”, nuovamente dura, cantata in italiano e che ad essere sinceri sembrerebbe riuscire a realizzare quello che la Periferia si era posta all’inizio come meta. Ecco, se si volesse davvero continuare un certo tipo di discorso, si potrebbe benissimo partire da questa (bella) fine.
Volendo dare un’opinione finale, quindi, si può dire che da un lato ci sarà chi incenserà il quarto album della Periferia del Mondo come l’ennesimo lavoro professionale che porta delle novità; dall’altro, invece, ci sarà chi scorgerà una rotta che non convince fino in fondo. Entrambi i punti di vista, ad onor del vero, appaiono assolutamente oggettivi.



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Michele Merenda

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