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DIALETO |
The last tribe |
Moonjune Records |
2013 |
BRA |
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Trio brasiliano nato nel 1987 dopo l’incontro tra il chitarrista Nelson Coelho, il bassista Andrei Ivanovic ed il batterista Miguel Angel, fin dall’inizio si è caratterizzato per una proposta strumentale altamente tecnica, basata su ascolti che andavano dai King Crimson a Frank Zappa (passando per Jimi Hendrix, Santana e Mahavisnu Orchestra) e su un fattore multiculturale tipico del Sud America, soprattutto in quelle città ad alta densità di popolazione come la loro San Paulo. Dopo aver inciso un LP intitolato “Dialect” nel 1991, i tre tornano più attivi che mai nel decennio seguente, in cui pubblicano “Will exist forever” (2008) – riprendendo brani del vecchio album – e “Chromatic freedom” (2010), che presenta un paio di pezzi cantati da Coelho. Dal canto suo, la newyorkese Moonjune Records da alcuni anni si è mostrata interessata – tra le varie cose – anche alla (ri)scopetta di talenti chitarristici capaci di proporre dei contenuti musicali che andassero al di là dei soliti stereotipi, prova ne è la pubblicazione di artisti come Ligro o Tohpati. I Dialeto, che nel frattempo hanno sostituito Ivanovic col bassista Jorge Pescara (qui autore dei cosiddetti touchguitars), con questo “The last tribe” si fanno portatori di una musica sicuramente complessa, di non facile catalogazione, ma che allo stesso tempo risulta anche molto godibile in virtù della scelta di eseguire le partiture su dei tempi mai inverosimili. Le credenziali, avallate da buona parte dei recensori, esaltano giustamente la figura di Coelho, ottimo chitarrista ed autore di tutti i brani, ma la differenza vera sembra farla proprio il nuovo arrivato Pescara, che con delle linee di basso assai profonde e riverberi vari crea una struttura di base capace di indirizzare l’album in una direzione tanto solida (quasi monolitica, a tratti) quanto scorrevole, con una perizia capace di dare un’impronta assai significativa. Quest’ultimo lavoro dei paulisti si va pian piano evolvendo nel suo interno, passando da pezzi più aperti ad altri che gradatamente vanno verso la cupezza e la complessità concettuale. Il susseguirsi di “Windmaster”, “Dorian Grey” e della title-tack di quasi due minuti è un amplificarsi di stesure malinconicamente epiche, con variazioni sempre più articolate sul tema iniziale, arrivando a “Lydya in Playground”, in cui il fluido flavour nostalgico passa subito a dei passaggi chiaramente “metallici” che, nel loro incedere sempre sognante, ricordano il Joe Satriani più visionario di “Flying in a blue dream”; un episodio di grande effetto, con chitarra e basso che incantano, mentre la batteria scandisce i tempi con mestiere preciso ed inesorabile. Il momento magico continua con i quasi otto minuti della seguente “Unimpossible”, dove il basso corposo disegna la base su cui far evolvere le note meditative e quasi blueseggianti di Coelho, il quale prima intercala delle fasi che somigliano molto a quanto si può ascoltare all’altezza del secondo minuto su “Sailor’s Tale” di crimsoniana memoria, per poi evolversi in ben altro, che in un determinato momento non è azzardato accostare per ispirazione ad una “Larks Tongues in Aspic part I” in versione Djam Karet, con tanto di finale insistito. La poetica “Tarde Demais” è il preludio a “Vintitreis”, che si apre con uno xilofono e poi si lascia andare ancora a quel misto King Crimson (era “Thrak”)-Djam Karet, per un effetto psichedelico che alterna dimensione onirica e durezza. Il binomio di “Whereisit” e “Sand Horses” costituisce un ulteriore passo verso l’asimmetria, l’introspezione e lo sfogo repentino tramite scale che vanno decisamente oltre, ricordando nel secondo pezzo citato i Black Sun Ensemble più duri, chiudendo con l’ancora tecnica e severa “Chromaterius”. Bel lavoro quest’ultima fatica del trio carioca, che potrebbe anche ricordare un po’ il Chris Poland più orientato verso il jazz-metal con i suoi OHM. Considerando che nonostante le lodi sperticate i Dialeto hanno ancora margine di crescita dal punto di vista compositivo, se ne potrebbero ascoltare davvero delle belle nei prossimi anni. Sperando, però, che questo alla lunga non diventi un peso troppo forte da sostenere.
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Michele Merenda
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