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INGRANAGGI DELLA VALLE |
In hoc signo |
Black Widow Records |
2013 |
ITA |
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Uno dei tanti luoghi comuni che la critica confeziona per il “progressive rock” è che si tratta di musica vecchia, ascoltata da “vecchi” e suonata (pure!) da “vecchi”. Ognuna delle considerazioni proposte è facilmente smontabile e l’ultima in particolare (che i componenti delle band siano o “reduci” degli anni ’70 o quarantenni nostalgici di un’epoca che hanno vissuto quasi per solo “sentito dire”), con l’affacciarsi continuo di nuove formazioni (e molte sono italiane) dall’età media molto bassa. Gli Ingranaggi Della Valle ne sono un perfetto esempio: il “nonno” della band capitolina è il cantante Igor Leone (classe 1980), gli altri componenti veleggiano fra i 20 e i 23 anni… Potrebbero benissimo non sapere neanche cosa è stato e cos’è il progressive rock. Eppure, malgrado provengano da background anche molto differenti fra loro, per esprimere le proprie emozioni e per soddisfare la propria indole, non trovano niente di meglio che coltivare questo “genere“ aperto alle più disparate contaminazioni… E lo fanno con un concept, “In hoc signo”, ambientato ai tempi della prima crociata. Senza addentrarci nel “plot” (ne parleremo nell’intervista che ci hanno rilasciato) e nella storia di uno dei suoi protagonisti, Boemondo di Taranto, passiamo invece all’aspetto musicale. Seppur la linfa vitale nasca nel movimento pop italiano dei ’70, ben più marcate appaiono le influenze jazz-rock, fusion e con la ricca inventiva tipica delle jam-band per la notevole capacità di creare partendo dalle improvvisazioni. O perlomeno questa è l’impressione netta che cogliamo. Una libertà che porta la band ad uscire da molti schemi a favore di un “lasciarsi andare” indice di ottime capacità e personalità non indifferente. Il tutto ammantato da liriche efficaci (quasi tutte ad opera del duo Flavio Gonnellini -chitarre- e Mattia Liberati -tastiere-) anche se talvolta si colgono delle difficoltà nell’inserire melodicamente il testo nelle articolate tessiture create dalla band. Peccato comunque veniale e che l’ascolto metodico e continuo dell’album tende sempre più a stemperare. E che dire delle singole individualità? L’ottima voce di Igor Leone perfetta nel descrivere le emozioni che traspaiono dai vari brani; il drumming molto fantasioso di Shanti Colucci; la chitarra sferzante (“Cavalcata”), liquida (“Via Egnatia”) ma anche delicatissima (“Kairuv’an”), quando necessario, di Flavio Gonnellini. Come dimenticare le suggestioni create dal Mellotron e dallo Hammond (nei momenti, e non mancano davvero, in cui prevale una spinta decisamente rock) di Mattia Liberati?
Magnifico e sorprendente quanto prodotto dal violino di Marco Gennarini (di formazione classica e grande protagonista dell’album) nella superba “L’assedio di Antiochia”, in “Fuga da Amman”, ottimo strumentale che evidenzia l’essenza “free” della band o, ancora in “Finale”. Ben tre i bassisti che si avvicendano negli 11 brani: Edoardo Arrigo (che in sede live si occupa di Mellotron, bassi Taurus ecc..), Simone Massimi e Marco Bruno. Ognuno si ritaglia un proprio spazio (spesso e volentieri anche da solista) creando delle belle linee convincenti ed articolate (“Masqat”, “Il vento del tempo” solo per citare un paio di brani). Aggiungiamo pure che due “mostri sacri” (facciamo 1 e ½ va’…) come Mattias Olsson e David Jackson prestano la loro arte (rispettivamente in due ed in un brano) ed ecco che “In hoc signo” acquisisce una ulteriore valenza e caratura (andava già benissimo così comunque ragazzi…). Un album davvero ricercato e carico di emozioni in cui l’anima rock (sempre presente), si fonde alla grande con il jazz, la fusion, la tradizione progressive italica e va a creare, se non un “unicum” certamente qualcosa di personale. E sicuramente convincente.
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Valentino Butti
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