|
ILVCIA |
In the nature of reason |
autoprod. |
2013 |
SPA |
|
Ilvcia (letteralmente: “luce”), cioè l'unica parola leggibile su una lastra trovata a Cáceres (Spagna) molti anni fa. Si pensa che risalga all'epoca romana e in essa è raffigurata una forma simile a quella umana, distorta. A detta della band, i misteri e gli enigmi che ruotano intorno al suo significato sono la perfetta metafora della musica proposta. Il giovane quintetto iberico si è formato a Barcellona nel 2010 e dopo diverse date live ha esordito con questo album autoprodotto. Tra le loro influenze dichiarate vi sono gli Yes, i King Crimson ed i Rush, ma sembra che i catalani portino avanti fin dalle prime battute qualcosa di molto personale che non ha poi tutti quei contatti con i nomi sopra citati. Tutto ciò naturalmente non è poco, risulta anzi un grosso merito, soprattutto perché il prog rock pacato proposto mette sempre in risalto il proprio ceppo culturale a partire dai dodici minuti della prima “The Safe”, le cui (poche) parti cantate sono quasi sussurrate, letteralmente “immerse” tra le nostalgiche partiture, tanto che ad un certo punto – anche per via della profonda musicalità – si fa fatica a capire se si stia cantando in inglese o in qualche lingua spagnola. Idem con la seguente “Universe of Fields” (sicuramente in inglese…), che però stavolta ha come chiaro punto di riferimento i Black Sabbath, stemperati comunque in abbondanti bicchieri di sangria della Catalogna, la cui sbronza finale a colpi di synth denota ancora una personalità melanconica tipica di un certo immaginario letterario. La strumentale “Baghdad” è divisa in tre parti e mette in luce l’influenza moresca sulla cultura (soprattutto musicale) della Spagna; si parte con le chitarre classiche sognanti di “Baghdad I The Gates”, si prosegue con la festosità di “Baghdad II The Market” e poi si conclude con “ Baghdad III The Suburbs”, che dopo una intro di pianoforte… sembra rifarsi addirittura agli High Tide del secondo lavoro omonimo nelle sue parti più orecchiabili. La conclusione dell’album è affidata a “Sit T. Weaver”, che anche per come viene cantata pare poter essere riconducibile a certi Caravan. Qualcuno potrebbe dire che vi sono delle cose da migliorare sensibilmente in fase di registrazione, di produzione e magari nella capacità di sviluppare le idee compositive. Ed avrebbe ragione. Se si fosse trattato di un demo, molti avrebbero gridato al miracolo e sarebbe nato un grande gruppo prima ancora di incidere il debutto. Gli Ilvcia hanno dato alle stampe un esordio che scorre molto velocemente nei suoi quaranta minuti e se per determinati “intenditori” ciò risulta a priori un difetto, in quest’ambito non si ha nessun timore reverenziale nel volerli smentire. Di sicuro la band viaggia verso una piena sufficienza e l’inventiva sembra non difettare. Un motivo in più per aspettare al varco il prossimo album ed attendersi (lecitamente) una significativa prova professionale. Intanto, risentiamoci ancora una volta questo debutto. Chi invece vuole tutto e subito (ma che cosa, poi?), eviti pure di ascoltare. Così eviterà anche di fare commenti.
|
Michele Merenda
|