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SKY ARCHITECT |
A billion years of solitude |
Galileo Records |
2013 |
NL |
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Che la sci-fi sia diventata una prerogativa della scena prog olandese? Il dubbio appare legittimo, visto che gli Ayreon di Arjen Lucassen sono stati gli antesignani di storie fantascientifica già da un bel po’ di anni (per non parlare poi degli Space One, altro progetto dello stesso Lucassen) e gli Sky Architect, presi in questo caso in esame, sembrano un tutt’uno con le vicende stellari fin dal loro monicker. E così, il quintetto “fantascientifico” della Terra dei tulipani torna dopo due anni con il terzo lavoro, stavolta dichiaratamente ispirato alle saghe spaziali degli anni ’50 e 60’, come si può evincere dal vecchio modello di robot sentinella che vaga tipo il relitto di un cosmo profondo in cui non vi è più alcun tempo cronologico. Per la band che ha detto e ancora oggi dice di ispirarsi a Flowers Kings, Beardfish e Spock’s Beard – modelli a loro volta assai derivativi, quindi –, c’era da capire se finalmente erano stati riempiti determinati vuoti compositivi rilevati nelle due precedenti uscite. Passaggi strumentali a tratti ottimi, a cui però si intervallavano delle pause niente affatto benauguranti, con una scelta di suoni a volte discutibile. “A billion…”, in effetti, sembrerebbe voler mantenere il proposito di cambiamento sbandierato dalla band; i “buchi neri” (volendo usare metafore consone ai loro concept) continuano ad esserci, ma pare che si stiano man mano restringendo, segnalando così una evidente presa di coscienza. Occorre quindi ascoltare un paio di volte i diciotto minuti dell’iniziale “The Curious One”; in principio potrebbe sembrare che per buona parte del brano ci si sia lasciati andare alla piatta deriva cosmica, cominciando a fare finalmente sul serio solo dopo quindici minuti, con una corposa parte strumentale. Risentendo, si entra meglio nel clima fantascientifico di un tempo ormai andato, con gli input dei circuiti che risuonano quasi armonici e la presenze di un numero di ripartenze maggiore rispetto a quanto si era ascoltato prima, magari distratti dall’eccessivo minutaggio. Stessa cosa dicasi per “Whormholes”, in realtà più aggressiva dell’oblio colto in prima battuta. Con “Tides”, da questo punto di vista, le coordinate risultano già meglio tracciate. Ma di sicuro si comincia a fare veramente sul serio con i quasi undici minuti di “Elegy of a Solitary Giant”, riflessioni di una supernova che sente di star terminando i suoi ultimi sprazzi di energia (interessante concetto di un diverso tipo di esistenza ed autoconsapevolezza), aperta dall’organo Hammond e controtempi nello stile delle compagini sopra citate (connazionali Ayreon compresi), a cui fanno seguito parti strumentali aggressive, distorte, che si contrappongono alle (volutamente) stanche parti cantate. Dopo la strumentale e un po’ martellante “Jim’s Ride To Hell”, si chiude con gli otto minuti di “Revolutions” ed i dodici abbondanti di “Traveller’s Last Candle”. Si tratta probabilmente dei momenti migliori, dove le tanto declamate ripartenze strumentali acquisiscono grande energia e fanno da ottimo contrasto alle fasi narrate. Ci sono delle ottime partiture di chitarra prog e l’uso sporadico dei fiati distorti nell’ultimo pezzo fa crescere notevolmente le quote degli “architetti”. Insomma, il quintetto olandese lo avremmo voluto sempre sui livelli delle tante parti buone citate. Che inizialmente destino delle perplessità è comprensibile, ma qui ci sono diverse idee valide, nonostante possano risultare niente affatto originali ma derivate da chi già derivativo lo è di suo. Potrebbe però essere una buona base per qualcosa di più importante, chissà? “Cent’anni di solitudine” scriveva Gabriel Garçia Marquez… Che volete che siano di fronte ad un miliardo di anni passati a vagare nell’universo alla ricerca silente di se stessi?
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Michele Merenda
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