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FROST* |
The Rockfield files |
Cube Records |
2013 |
UK |
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Forse potrei sbrigare questa recensione in poche lapidarie parole, macredo sia doveroso spiegare in maniera più estesa e dettagliata quest’ultima uscita degli inglesi Frost*. Il lavoro si presenta diviso in due supporti, CD e DVD di pari contenuto, tranne che per una lunga intervista presente sul secondo volume. Il costrutto si dipana come una sorta di live in studio, con brani tratti dai due dischi precedenti e, per l’occasione,rivisitati e incisi ai Rockfield Studios di Monmouth in Galles. La formazione è quella a quartetto con Jem Godfrey per tastiere e voce, John Mitchell per chitarre e voce, Nathan King per basso e voce e Craig Blundell alla batteria. C’è però da sottolineare un dato fondamentale per la presenza di un quinto uomo, Rob Reed dei Magenta, che si è occupato della produzione e della regia della registrazione video. La musica avanza poderosa e muscolosa, con dosi massicce di rock dalle tendenze più hard AOR e metal che progressive. Le chitarre e la batteria sono tipiche degli sviluppi di quel genere che si è diffuso con il nome di progressive metal, ma senza averne l’intrico ritmico, al quale la band sembra prediligere segnature martellanti ed estremamente decise. Questo, unito a linee di canto orecchiabili (spesso persino banali e piuttosto ripetitive) e di evidente provenienza rock - AOR, discosta decisamente il risultato finale da temi più tipicamente prog, naturali o intenzionali che siano. Nulla da eccepire sulla qualità tecnica del prodotto, suonato, registrato e prodotto assolutamente ad un passo dalla perfezione, tenuto conto anche della “presa live”. È chiaro che i musicisti devono aver provato i brani fino allo sfinimento: non ci sono sbavature tutto fila liscio, ricco, pieno e maestoso, ma il problema dell’ipertecnicismo e della freddezza dei risultati è evidente e predominante, quasi fosse la vera intenzione del lavoro. La set-list prevede momenti più epici e carnosie altri più melodici e tranquilli, addirittura il finale è coperto da due brani con intenzioni acustiche, parola che al giorno d’oggi vedo piuttosto forzata, specie per un disco di questo genere, con pretese di modernità e tecnologia molto spinta verso il digitale. Un sunto dei brani vede spiccare l’opener“Hyperventilate”, uno strumentale massiccio ma dai risvolti melodici piuttosto interessanti e di forte presa. La lunga suite “Milliontown” che diede nome anche al disco di esordio della band nel 2006, la sua nuova veste non è dissimile all’originale tranne che per una maggior presenza di suoni spigolosi e decisi dei synth e delle chitarre. Poco da dire sui restanti brani che puntano, a mio parere, troppo sulla ritmicità e sulla presa delle linee melodiche, specie “Hearstrings”, brano dal piglio hit, forse neppure brutto, ma che mi viene da liquidare con uno scolastico: fuori tema. Il finale acustico vede l’inedita “Lantern”, una ballad ben cantata e con un discreto intreccio pianoforte – chitarra, il suo sviluppo, pur tentando di ricercare effetto e riuscita, risulta comunque ordinario e ricco di temi già sentiti. Il secondo brano acustico è “Black Light Machine”, presentato anche nella prima parte nella sua completezza elettrica. Questa versione, pur positiva e pur allontanando il tema iniziale dalla banale danzabilità dell’altra, aggiunge ancora poco ad un album al quale stento ancora a dare un significato e una finalità. In conclusione ritengo che il lavoro non vada ad aggiungere nulla di sostanzioso a quanto già espresso dai due lavori primigeni, se non la dimostrazione di un indirizzo che vorrebbe essere vessillo di un progressive rock contemporaneo dai tratti moderni e futuribili, ma che, al di là delle intenzioni, si riduce ad essere esempio tipico di quel rock dalle tendenze prog metal che qui risultano addirittura semplificate, che ben si spalma nel mare magnum dell’easy listening. A chi consigliarlo quindi? Be’, essenzialmente a chi abbia voglia di sentirselo a volume un po’ elevato in macchina, senza dargli troppo peso e troppa attenzione, tanto fila liscio lo stesso.
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Roberto Vanali
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