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AMPLEDEED A is for Ampledeed autoprod. 2013 USA

Band di giovanissimi all’esordio. Americani della California, si presentano con un album che pare già maturo seppur derivativo e ricco di influenze di varia natura.
Il trio di base è capitanato dal polistrumentista Max Taylor che si dedica alla batteria, alle tastiere, alla voce e al basso, poi c’è Aaron Goldich per tastiere e voci e Luis Flores per chitarre, ukulele e voci. Ci sono poi vari ospiti che si alternano per batteria, basso, sax e voci. Una band davvero dinamica e con ampie disponibilità e possibilità di interscambio La proposta è indirizzata verso un progressive piuttosto trasversale che va dal jazz pop raffinato con svariati contatti con il Canterbury Sound a forme più libere e quasi RIO, in mezzo ci sta di tutto, da aggressivi temi crimsoniani, blues macchiato di beat e psichedelia, jazz, rock più classico in stile The Who, momenti acustici e altri decisamente sinfonici. La strada è un po’ quella variegata già intrapresa da band come Echolyn o Happy the Man, ma – se penso agli ultimi anni – la band con la quale trovo maggiori somiglianze è quella degli Antique Seeking Nuns: biglietto da visita di assoluto rispetto.
Piuttosto lungo, questo lavoro d’esordio, è diviso in 14 brani dalle lunghezze assai variabili, considerato che si va dai venti secondi di “Drum Fuckin’”, un mini e simpatico assolo di batteria ai quasi otto minuti dell’opener “We breath time”. E partirei, per la descrizione dei brani e dei loro contenuti, proprio da questa complessa traccia, strabordante di cambi, con inizio un po’ sullo stile di Cheerful of Insanity di frippiana memoria, passando poi per momenti più ricchi e duri e altri quasi scherzosi con temi che sembrano usciti da un furibondo videogioco, poi un rush poliritmico con duetto chitarra tastiere e inaspettato, verso fine brano, tutto muta e dal nulla nasce un cantato in bilico tra psichedelia floydiana spunti Beatles e mini assolo di chitarra scomposto e carico di sangue blues e jazz. Materiale che molti avrebbero usato per ben più di un brano, ma che qui ha una concentrazione densa e sempre funzionale.
Alternanza tra hard e pop è la parte iniziale cantata di “Super Collide Bromwich”, uno dei pezzi forti del disco, con stacchi strumentali che vanno a riprendere temi canterburyani tra Hatfield e Soft Machine e assolo di chitarra che pare uscito dritto dai National Health. Altro brano notevole è “Why 6 is afraid of 7”, ancora poliritmie (come ci preannuncia il titolo), ancora Canterbury e una parte sinfonica con un particolare assolo di Synth che si dipana su tappeto di chitarra acustica, cosa sufficientemente personale e interessante. Potremmo ancora dilungarci sui temi decisamente beatlesiani di “If I come down” o sulle teatrali mosse frippiane di “Dragon Lance”, brano che custodisce un altro notevole break sinfonico di tastiere, ma in effetti possiamo anche avvicinarci alla conclusione della disamina dicendo in breve che il disco presenta, nel suo complesso (e il termine non è lì a caso), ottima tecnica di tutti, soluzioni molto ricercate e spesso inaspettate. Un’altra bella sorpresa e il fatto che arrivi da giovani poco più che ragazzi direi che è ben più che positivo



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Roberto Vanali

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