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HIDDEN LANDS In our nature Progress Records 2012 SVE

Dietro questo nome, in apparenza nuovo di zecca, si nasconde in realtà la già a noi nota line-up dei Violent Silence. Ci ritroviamo infatti tutti i membri che nel 2005 hanno registrato l’album “Kinetic”, con la sola eccezione del batterista, sostituito in quest’occasione da Gustav Nyber. Stessa coppia di tastieristi, Hannes Ljunghall e Björn Westén, stesso bassista, Phillip Bastin, e stessa voce, quella di Bruno Edling e, anche in questo caso, niente chitarre. Ma parità, o quasi, di line-up non vuol dire necessariamente stessa musica. Se infatti da una parte riaffiorano alcune similitudini con i Twin Age, che avevo abbondantemente ritrovato nel gruppo madre, se la matrice è pur sempre quella sinfonica e romantica, con profonde radici Genesisiane, questo “In our nature” appare decisamente più entusiasmante di qualsiasi altra produzione dei Violent Silence che, da parte loro, avevano invece registrato, con l’album prima citato, un indurimento del sound che non avevo affatto digerito.
Semplicità, romanticismo, sinfonicità ed una piacevole compattezza di idee sono una costante di queste sei splendide tracce che scivolano via in men che non si dica, regalandoci 45 minuti circa di emozioni a tinte delicate e sognanti. Uno degli aspetti più interessanti riguarda gli intrecci tastieristici: abbiamo infatti dei synth molto poderosi e sgargianti in prima linea, che risaltano particolarmente sul melodico tessuto di base e, più sotto, delle vivaci linee pianistiche a contrasto. E’ così nella deliziosa “L'ancien Régime”, brano piacevolmente movimentato in cui le note veloci e pulite del piano sembrano rilucere e scintillare senza sosta. I colori dei synth hanno un vago sentore di fine Settanta, inizio Ottanta, e mi riportano col pensiero ai Kaipa o anche, stranamente, ai polacchi Exodus di “The Most Beautiful Day”. In comune con questi ultimi si percepisce qua e là anche una lieve impronta space, come ne è esempio la breve ma brillante “Stiletto Runner”, mentre in altre occasioni appare più evidente un vivace romanticismo alla Collage, tanto per rimanere in Polonia. “The Road to Halych”, in questo senso, sembra quasi uscita fuori da “Moonshine”, album di punta di quest’ultimo gruppo, ricalcandone la profondità spaziale dei suoni e certe atmosfere notturne e dolcemente malinconiche. Il confronto con i Twin Age nasce invece principalmente dal cantato che comunque non è mai invadente e lascia ampio respiro alla musica, sempre avvolgente. Fra i brani più intriganti trovo giusto segnalare quello più esteso dell’opera, “Incurable”, di quasi undici minuti, che proprio per le sue frastagliate, ma sempre delicate, partiture pianistiche mi ricorda persino, anche se in modo abbastanza marginale, gli Echolyn. A prevalere sono comunque i sentimenti docili che prendono corpo grazie a melodie ampie e ben delineate che risaltano perfettamente in un contesto musicale non affollato di idee inutili e sempre equilibrato. “The Night Garden” è un brano perfetto per chiudere questo album, non particolarmente impegnativo, fluido e carezzevole, con sentori di Beatles e Pink Floyd e le immancabili tastiere che dischiudono fragranze terribilmente Genesisiane ad abbellire il tutto.
Al momento in cui scrivo, purtroppo a distanza di qualche anno dalla pubblicazione di tale disco, sta per uscire un nuovo album di questo progetto e, viste queste premesse, non posso che attenderlo con impazienza. Ma questo sarà un nuovo capitolo tutto da scoprire, nel frattempo godiamoci pure questa delizia, semplice ma incisiva, assolutamente non innovativa ma bella nel suo ripercorrere, con un pizzico di personalità e tanta modestia, sentieri a noi noti e felicemente battuti.


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Jessica Attene

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