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ZEPTELAR |
El color de las cosas |
autoprod. |
2013 |
CHI |
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Vengono da Valparaíso guidati da Camilo Acevedo, chitarrista nonché compositore della quasi totalità della musica contenuta in questo delizioso esordio discografico, e di fatto si aggiungono ad una schiera di altre band cilene decisamente valide che si sono cimentate nella fusione e rielaborazione di forme musicali colte, accarezzando in vario modo le correnti del jazz rock, della musica contemporanea ma anche della tradizione latinoamericana. Difficile non pensare alle gesta di Fulano, Congreso o anche dei Mediabanda ascoltando questo dischetto che comunque racchiude in sé molti altri elementi di contaminazione musicale. In realtà questo album non sembra assolutamente frutto della creatività di un chitarrista, gli assoli non abbondano di certo e questo strumento è utilizzato in modo tutt’altro che arrogante per creare piacevoli frastagliature e contrasti. Un po’ di autocompiacimento lo troviamo giusto nel cuore del brano più lungo, la centrale “Sangre” coi suoi 8 minuti, ove apprezziamo un lungo assolo in chiave jazz, ma per il resto la sei corde si integra in un tessuto sonoro vivace ed articolato. L’anima della band sembra tutta racchiusa nella voce rotonda e flessuosa di Valentina Mardones che, col suo canto senza parole, fa scivolare le nostre orecchie piacevolmente e rapidamente in un viaggio lungo cinquantacinque minuti e che si snoda in ben undici tracce. Il suo è un dolce divagare lungo pendenze a volte decise ma mai ardite, seguendo percorsi tortuosi ma praticamente privi di spigoli. Poi c’è il flauto di Tomás Carrasco che sembra andarle dietro come un cagnolino, assecondandone i piccoli mutamenti d’animo, dando risalto alle emozioni, intrecciandosi poeticamente al canto. Talvolta al flauto viene preferito il sax alto, suonato sempre da Carrasco, specie quando c’è bisogno di un sound più deciso, come in “Destapes”, brano ai margini del RIO che mi ricorda molto alcune evoluzioni dei Factor Burzaco. Nei vari incastri di suoni si fanno strada con agilità le tastiere di Javier Portilla, talvolta rinforzate dai synth della stessa Valentina. Talvolta viene preferito il pianoforte, soprattutto nei momenti di maggiore ispirazione classicheggiante, ed eccolo allora scintillare nella splendida traccia di apertura, “De la esquina a la plaza”, una piccola meraviglia soft jazz solcata da piacevoli digressioni sinfoniche che si muove lungo percorsi sonori intriganti. I suoi spartiti sono mutevoli, aromatizzati da fragranze Canterburyane ma anche da suggestioni che ci riportano alla Música Pupular Brasileira in una formula per certi versi Hermetica. In “Futuros recuerdos” il piano colora dolcemente gli spazi musicali con un fare che oscilla fra il jazz e la musica da camera. Ecco poi che a volte viene scelto il piano elettrico, con sonorità suadenti che formano un morbido tappeto, come in “5 de 3” con le sue belle melodie asimmetriche. A volte gli impasti si fanno più rock e la sezione ritmica, con Edmundo Castro al basso e Andrés Ibáñez alla batteria, è sempre all’altezza della situazione indurendosi all’occorrenza: eccola spingere nella frastagliata “La pileta de pájaros gigantes”, per riacquistare in men che non si dica grazia e flessibilità in brani come “Estrellazos”, così leggera che sembra quasi levitare sfiorando teneramente le nostre orecchie. Ma in realtà tutto l’album, anche nei momenti caratterizzati da una maggiore complessità, appare decisamente fruibile e sono certa che saprà farsi apprezzare anche da chi non è un abituale frequentatore dei territori che si trovano al di là dei confini del prog sinfonico più canonico.
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Jessica Attene
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