|
ODIN'S COURT |
Turtles all the way down |
Progress Records |
2014 |
USA |
|
Quinto album per la prog-metal band di Baltimora che, esattamente come i lavori precedenti, si dimostra essere un concept dalle profonde riflessioni filosofiche. Capitanato dal chitarrista Matt Brook, mente del progetto nonché autore delle composizioni e dei testi, il gruppo da un po’ si avvale della voce di Dimetrius La Favors, invero non così eccezionale (andrebbe sentito dal vivo, capendo in tal modo quanto c’è di suo e quanto invece c’entrano gli artifizi dello studio di registrazione), denotando però la peculiarità di bilanciarsi bene con le fasi strumentali, che risultano abbastanza piacevoli ed il punto forte della situazione. Tra i vari riferimenti sono stati apertamente citati i Queen, i Pink Floyd, i Porcupine Tree, persino gli HIM, gli Iron Maiden… Quest’ultimi vengono tirati in ballo, molto probabilmente, perché Brook è saldamente fiancheggiato dall’altro chitarrista Rick Pierpont, il quale appare spesso più incisivo (volutamente?) del proprio collega. Ma nonostante ciò non vi sono certo le cavalcate metalliche ed avvincenti tipiche di Steve Harris e soci, bensì degli assoli di metal classico eseguiti sicuramente bene e “levigati” con un opportuno lavoro di produzione, sopperendo così alla ripetuta convenzionalità delle forme. Accanto ai tre citati musicisti, cioè il nocciolo della “Corte di Odino”, si registra la presenza durante tutto l’arco dell’album del bassista Seth Jackson e del batterista Jeff Sauber, che compaiono come ospiti. Il nuovo lavoro si basa sulle domande esistenziali che ci si pone al riguardo di argomenti capaci di aprire sempre nuovi interrogativi, come le origini dell’universo, il suo eventuale creatore ed il proposito che potrebbe stare alla base della creazione stessa, visti però dal punto di vista del singolo individuo. Da qui, la problematica della conoscenza, capace di mutare a seconda dei livelli raggiunti. Cambiando, così, anche la percezione umana dei fenomeni. I tredici brani sono divisi in tre sezioni, che rispettivamente riguardano l’Universo, la Vita ed il Tutto (qui reso con la parola inglese “Everything”). Ci sono diversi strumentali ed il libretto, ben curato, indica di volta in volta chi si incarica dei singoli assoli. Diciamo che la seconda sezione appare più interessante della prima,con belle canzoni melodiche come “The Warmyh of Mediocrity” e “(A Song for) Dragons”.La migliore in assoluto, comunque, risulta decisamente la suite finale “Box of Dice (Does God Play?)”, che come da titolo si ricollega al particolare art-work curato dal francese J.P. Fournier. Divisa in cinque parti, suona come sarebbe dovuto suonare l’intero album per poterne parlare in termini pienamente positivi, grazie anche alla presenza esclusiva per questo brano molto articolato del bassista Craig Jackson e soprattutto del tastierista Savino Palumbo, che duella con i due chitarristi. Un lavoro che parla del corpo, desideroso di dormire, contrastato dalla mente, la quale continua sempre a pensare, e in cui ci si chiede se gli accadimenti non siano davvero un gioco in cui il Creatore lancia i dadi. E che si pone all’ascolto come un prog-metal curiosamente easy listening, da poter essere persino passato per radio. Non sarebbe certo male, affinché si aprissero gradatamente le menti di tanti ascoltatori. Proposta gradevole, nel suo complesso.
|
Michele Merenda
Collegamenti
ad altre recensioni |
|