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ELDBERG Þar er heimur hugans Mylodon Records 2015 ISL

Capita ascoltando un album, anche di quelli che colpiscono subito nel segno, di pensare che qui ci starebbe bene questo o che lì potrebbe essere aggiunto quest'altro. Capita che qualche piccolo sassolino possa infilarsi in un paio di comode calzature ad infastidire i nostri passi… per farla poco lunga, è possibile insomma che qualcosa non ci soddisfi appieno, pur riconoscendo senza problemi che siamo alle prese con un signor disco. E l’omonimo esordio degli Eldberg uscito nel 2011, album interessante dal feeling oscuro e nordico, di quelli che potenzialmente sono in grado di far perdere la testa a una buona fetta del moderno popolo prog, mi faceva proprio quell’effetto lì. Era insomma uno di quei dischi che mi sarebbe piaciuto che fosse... e adesso lo posso dire con assoluta precisione… più o meno come questo qui uscito ora! Il nuovo arrivato presenta infatti tutti i pregi del suo predecessore ricalcandone la potenza, la spigliatezza, il carattere, mentre tutti quegli elementi che riconoscevo come difettosi appaiono ora evidentemente ben limati dall'esperienza. Il gruppo sembra in effetti molto cresciuto, incluso il cantante che riesce ad imprimere alla sua voce un tono senza dubbio più carico di emozioni e feeling rispetto al passato. Ascoltandolo mi sono persino chiesta se si trattasse o no dello stesso Eyþór Ingi Gunnlaugsson che qualche anno fa era stato oggetto delle mie critiche. La sua, scrivevo, era un’ugola poco aggraziata e adesso si trasforma in un grosso punto di forza: riesce a modularsi dolcemente nelle sequenze più pop e melodiche e ad esprimersi con impeto in quelle più tirate, senza sopraffare mai la musica che prevale nettamente sulle parti cantate. Come cambiano le cose a volte!
Usando un traduttore automatico mi sembra di capire che il titolo (gli Eldberg, per chi non lo sapesse, si esprimono esclusivamente in islandese) significa qualcosa come “c'è un mondo della mente” e in effetti questo album mi fa pensare alla suddivisione anatomica e funzionale del cervello umano in due emisferi... e anche l’immagine della copertina sembra darmi ragione… Vuoi perché è fisicamente suddiviso in due lunghe suite, vuoi perché gran parte del suo fascino si basa su dicotomie sonore incentrate sull'alternanza o sulla mescolanza di sonorità ruvide e corrosive da una parte e dolci e vellutate dall'altra. Ecco quindi il groove pastoso dell'organo Hammond, possente ed austero, le spinte tenaci della chitarra elettrica, i tappeti del Mellotron, il cantato seducente, le colorazioni oscure e boscose e le piacevoli aperture sinfoniche.
La prima suite, che copre le prime cinque tracce, è cerebrale e sofisticata, coerente e simmetrica, impregnata di sonorità vintage (ricordiamo che il tastierista Heimir Klemenzson dispone anche di un Fender Rhodes e di un Wurlitzer) ed impressioni psichedeliche, accenti pop e nuance folkish, col cantato spesso sussurrato e suadente. Talvolta la musica procede adagio, quasi fosse una preghiera, e all’improvviso è tagliata da squarci sonori impetuosi, carichi di emozione. E’ appena iniziata “Miklihvellur” (“Big Bang”, suggerisce il solito traduttore automatico) e l’organo Hammond è caldo e vibrante. Il violino ordisce melodie tenere e sinistre mentre la musica si trasforma in una bufera di emozioni in cui vengono convogliate sensazioni contrastanti. Il rock vigoroso si alterna ad aperture classicheggianti, con rari momenti di estasi. Non ci accorgiamo quasi del passaggio tra una canzone e l’altra e in men che non si dica eccoci imprigionati nelle maglie hard blues dai riflessi psichedelici di “Skynjun”, con i suoi momenti di grande atmosfera ed i potenti fremiti. Ritrovo ancora una volta molto appropriati i paragoni che avevo tirato fuori tempo fa con i primi Black Bonzo o anche con i Trettioåriga Kriget. Ecco che ancora impercettibilmente si passa di traccia e gli scenari sonori di “Skýjaborging” (“Cloud City”) evocano qualcosa di macabro e maledettamente attraente. Il flusso delle emozioni è altalenante ma continuo fino alla fine della suite che culmina con “Hinn viti borni maður”, con le sue fughe melodiche scandite dal piano malinconico ed un polverone di suoni che si leva a contrasto sullo sfondo.
La seconda suite, sette tracce in totale, è invece più estroversa, graffiante ed istintiva, dall'impatto live, con Eyþór che si ritrova a volte ad urlare, ricordandomi in questi frangenti lo stile di Robert Plant. L’incipit (“Hulinn heimur” o “Hidden World”, per dirlo in inglese), particolarissimo, ci fa capire subito che si cambia scena rispetto a quanto ascoltato fin qui… il piano suona quasi come una sentenza ineluttabile, una voce recita meccanicamente alcuni versi, si ode il rintocco delle campane e un coro risponde quasi fosse un rituale di magia nera ed ecco che via, esplode la musica, un incandescente impasto hard rockeggiante dominato da un cantato rabbioso e ribelle. La musica è così trascinante (sembra quasi frutto di una registrazione in presa diretta) che arriviamo speditissimi all’ottava ed ultima traccia, “Tómarúm” (“Vacuum”), tormentata dalle urla del Theremin e da un organo spettrale… è comunque vero che il minutaggio dei brani è molto contenuto e tutto l’album scorre con grande agilità anche per questo… L’intera opera si chiude così in appena trentotto minuti mantenendoci con le orecchie ben incollate alle cuffie. L’album, di respiro più ampio nella sua prima parte e sanguigno e a presa rapida nella seconda, è nel suo complesso davvero indovinato e destinato a rimanere a lungo nel lettore, ovunque sia collocato il vostro emisfero dominate, sia esso a destra o a sinistra.



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Jessica Attene

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