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SOUL SECRET 4 Golden Core Records 2015 ITA

I napoletani Soul Secret tornano sul mercato, dopo che il loro secondo “Closer to daylight” (2011) aveva riscosso consensi unanimi tra gli addetti ai lavori. Un prog-metal che nonostante avesse dei riferimenti ben precisi si faceva ascoltare con molto piacere, ponendo le basi per dei lavori futuri dallo spessore di livello internazionale. Come già specificato a suo tempo in sede di recensione, oltre ai (quasi) inevitabili Dream Theater, si guardava soprattutto ai tedeschi Vanden Plas, grazie anche a strofe e ritornelli di facile presa (fattore che in questo caso non sminuisce affatto la proposta, anzi). Stavolta lo sguardo sulla band di Petrucci appare molto più focalizzato, nonostante la band stessa abbia avuto modo di far capire che chi vi sente solo i ‘Theater non ha poi queste ampie basi radicate nel mondo prog e magari dedica loro un ascolto molto frettoloso.
Il fatto è che “4” si mostra essere un concept molto oscuro e dalle dinamiche compositive sia concettuali che musicali assai tortuoso, la cui capacità di divincolarsi si basa sull’esecuzione di controtempi tipici del prog-metal; in questo caso, volenti o nolenti, il punto di riferimento diventa praticamente sempre il gruppo americano. È anche vero che l’approccio pare essere vicino ad un album come “Awake” (1994) ed in particolar modo al brano “Innocence faded”, quindi una vena molto melodica che, oltrepassando delle spesse coltri oscure, scorre su un tessuto abbastanza sostenuto e tecnico. Tempo addietro, tra l’altro, il brano in questione a qualcuno riportava alla mente certi spunti degli Yes. Se poi si vuole continuare a parlare del Teatro del Sogno, a volte affiorano anche echi del primo “When dream and day unite” (1989), soprattutto del pezzo “Afterlife” (che in questo contesto appare tra l’altro molto calzante); un modo di fare metal veloce ed articolato quindi, in cui l’impatto sia vocale che virtuosistico risultano entrambi ben amalgamati con l’orecchiabilità. Qui di capacità ce n’è in abbondanza, anche se non si eccede oltre misura con i virtuosismi. Oltre che per le parti strumentali, il medesimo discorso lo si può fare per la prova del nuovo cantante Lino Di Pietrantonio, che dà voce alla storia in maniera compatta e credibile.
Già, la storia… Oltre al fatto che i partenopei hanno inciso un demo nel 2005 (“Never care about tomorrow”) e poi due album ufficiali – portando così il conteggio complessivo a tre lavori e quindi giustificando il numero posto come titolo per questa uscita –, il numero “4” risulta essere l’emblema del concept, assumendo un significato assolutamente non convenzionale. Si tratta infatti (tra le varie spiegazioni) di una linea di percorso, lungo la quale il protagonista, divorato dal dolore, cammina inesorabile fino ad arrivare ad un bivio: tornare indietro sui suoi passi – e quindi tentare presumibilmente di farsi una nuova vita – oppure andare diritto per quel breve tratto che resta. E cadere nel vuoto. Sì, perché l’album si apre col capitolo finale, sfruttando quella vena letteraria che soprattutto da Tolstoj in poi ha fatto scuola nei decenni a venire. Un urlo di dolore porta Adam su un palazzo di notte, deciso ormai a farla finita. Ma di colpo si siede. Cominciando a far fluire i ricordi. L’iniziale “On the ledge” è tra le cose migliori, sciorinando i punti di contatto citati poco sopra, ma anche delle belle strofe che poi, lungo l’intero lavoro, con le relative applicazioni strumentali potrebbero ricordare gli album dall’approccio maggiormente melodico dei tedeschi Sieges Even, tipo “A sense of change” (1991) – quindi precedente all’avvento Theateriano del ’92 con “Images & words” – o alcune cose contenute persino in “The art of navigating by the stars” (2005).Spesso il leit-motiv, composto guarda caso da quattro note, confluisce nelle varie composizioni creando un unicum ed esplorando la capacità di autocitarsi. I particolari sembrano ben studiati e congegnati; Anne – il cui nome, come il protagonista maschile, è a sua volta composto da quattro lettere… – viene colpita dal cancro e quella vita da favola progettata dai due si frantuma in schegge dolorose. Il pezzo intitolato “K” è infatti l’abbreviazione del termine greco karkinos, che allude proprio alla malattia del cancro. E guarda sempre la casualità, il Cancro è il quarto segno dello Zodiaco…
Si è parlato non a torto della complessa “Turning the back page” come il pezzo emblematico, ma in realtà la seguente “Silence” appare molto più significativa: un’ottima esecuzione strumentale con chiari spunti del “Teatro del Sogno” ed anche elementi jazzati, che per l’appunto sta a sottolineare il silenzio. Anne, infatti, ha scelto l’eutanasia per non soffrire più e Adam l’ha vista andare via per sempre. Restano solo i ricordi di “In a frame”, che però via via diventano sempre più lancinanti, come “My lighthouse” e “Downfall” stanno a testimoniare. Si conclude tornando al punto inziale con la suite di sedici minuti e quarantaquattro secondi – un secondo in più di quella dell’album precedente, che a sua volta aumentava di un secondo il tempo di quella presente sul primo album – in cui c’è un po’ di tutto, soprattutto delle belle fasi soliste, anche se il minutaggio appare un po’ eccessivo. Ma alla fine, quando Adam forse prende la prima gravosa decisione gravosa della sua vita e si getta nel vuoto, accade…
Ad essere sinceri, anche il finale a sorpresa riporta alle soluzioni adottate dai Dream Theater, soprattutto nel loro concept “Metropolis part. 2: Scenes from a memory” (1999). Ma magari si è trattato solo di una casualità, di quelle che poi portano ad inevitabili riflessioni. Alla fine, anche quest’ultimo lavoro del gruppo campano risulta convincente ed anche se in precedenza vi era forse una maggiore differenziazione dalla massa, probabilmente adesso si sono abbracciati dei parametri che davvero li potrebbero portare alla consacrazione.
A proposito: lo sapevate che il termine “quattro” e “morte”, in coreano, giapponese ed un po’ anche in cinese, hanno la medesima assonanza?



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Michele Merenda

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