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LIGRO Dictionary 3 Moonjune Records 2015 INDN

Dopo quasi tre anni torna il trio jazz-rock/fusion indonesiano, il cui nome, lo si ricorda, va ricondotto alla lettura speculare della parola bahasa “ogril”, cioè il folle che si lascia completamente andare in senso positivo del termine. L’infuocato chitarrista Agam Hamzah, assieme alla sezione ritmica di tutto rispetto formata dal bassista Adi Darmawan e dal batterista Gusti Hendy (dai GIGI, sensation band in patria), aveva dato prova di grande tecnica e capacità di attingere a più fonti per poi far scaturire una musicalità energica, dissonante ed anche originale. Che però tirava forse un po’ troppo la corda, soprattutto per via del nutrito numero di pezzi e l’alto minutaggio che potevano far stancare più di un ascoltatore. Non che la proposta fosse negativa, tutt’altro; occorreva forse riuscire ad individuare un senso della misura, fattore che varia a seconda del tipo di proposta.
Stavolta, “Dictionary 3” si compone di cinque pezzi dalla durata comunque ampia. “Bliker 4”, in cui interviene per lunga parte il bravo pianista diciottenne Ade Irawan, sembra aprire in maniera ottima, facendo pensare che i “dizionari” proposti di volta in volta dai Ligro si compongano di multiformi terminologie. Si tratta di una composizione sicuramente legata al concetto di jazz nel senso più tradizionale; senza dubbio un incedere maggiormente morbido, in cui Hamzah non rinuncia certo al suo stile mai convenzionale, ma dove trovano risalto – verso la fine dei quasi quindici minuti – anche soluzioni decisamente blueseggianti (trasfigurate per l’occasione). Ma già dalla seguente “Pentagonal Krisis” le cose cambiano completamente, aprendo la strada verso la sperimentazione dichiarata. Un quarto d’ora che parte molto lentamente, prendendo forma consistente verso la fine del quarto minuto, in cui l’improvvisazione si ispira alle reminiscenze delle realtà più elettriche ad opera di John McLaughlin (Mahavisnu Orchestra, tanto per fare un nome a caso…) per approdare ad un caos distorto che poi abbandonerà il campo al silenzio, in cui comunque echeggiano delle increspature sonore. Un terreno propedeutico alle note di basso che scandiscono il quieto incedere irreale di “Tragic Hero”. Tredici minuti e cinquanta lasciati anch’essi (sembra) all’improvvisazione, tra fasi incisive di chitarra ed altri momenti contemplativi recitati dagli strumenti ritmici. Gli elementi jazz-rock sviluppati nell’area del Sud-Est asiatico, dopo aver preso definitivamente vita, risuonano con un incedere solenne e talmente elettrificato da temere di prendere la scossa!
Si superano abbondantemente i dieci minuti anche con “The 20th Century Colasseu”, basata sulle composizioni “Quartet for the End of Time” di Oliver Messiaen e “Opus 28” di Anton Webern”. Un approccio ritmico da turbogetto porta ancora una volta alla mente le soluzioni della Mahavisnu Orchestra, con la chitarra che cita le composizioni di cui sopra e soprattutto sfoggia un inusuale fraseggio la cui tecnica appare fuori dal comune. Chiude “Lonely Planet”, con cui si torna a strutture più conosciute e che all’inizio sembra persino citare il Mark Knopfler più meditativo. Una lunga atmosfera solitaria, come suggerisce di per sé il titolo, che nella seconda metà fa riemergere i temi dissonanti.
I Ligro sembrano aver cominciato una strada evolutiva che al momento si concentra più su fasi di contemplazione(per certi versi simile a quella di compagni di etichetta tipo Xavi Reija o Dušan Jevtović), pur colmandole quasi sempre di note dure e ad alto voltaggio. Questa appare quindi come una fase di transizione, il cui ulteriore sviluppo viene atteso con davvero tanta curiosità.



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Michele Merenda

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