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SPETTRI |
2973 La nemica dei ricordi |
Black Widow |
2015 |
ITA |
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A volte ritornano. Anche quando non è stato dato loro modo di partire. Poi, magari, ci prendono gusto e si riaffacciano per un altro saluto. È il caso degli Spettri, che tenendo fede al proprio nome appaiono e scompaiono come se niente fosse, per poi rimaterializzarsi a distanza di decenni e decidere, con fare inquietante, di continuare ad infestare ad oltranza gli stereo di cui si sono impossessati. Forse preludio di una presenza costante (ed inquietante…) nell’attuale mercato discografico. Per carità, nulla di male in tutto ciò. Tanto per capirci, il gruppo fiorentino è nato nel 1964, distinguendosi all’epoca per sparare in concerto musica che fuoriusciva da amplificatori per chitarra GRS a 100 watt. Incentrata attorno ai tre fratelli Ponticiello, nella band sarebbe poi anche entrato il batterista/flautista Mauro Sarti, noto per aver suonato in realtà storiche come Campo di Marte e Bella Band (entrambe sul mercato con un unico album, ma ugualmente significative – rispettivamente – per il prog e per il jazz-rock tricolore). Dopo il beat, sarebbe stata la volta delle bombe ad orologeria fatte esplodere dalla Triade formata da Deep Purple-Led Zeppelin-Black Sabbath, che influenzò in toto i protagonisti della nostra storia. La naturale conseguenza doveva essere la pubblicazione di quell’album composto nel periodo 1970-71, portato in concerto e poi inciso in una sola sessione il 13 ottobre del 1972. Che ovviamente mai avvenne. Il tempo passa… le correnti musicali pure… e con esse sembrano passare pure i musicisti, che confluiscono in altre realtà. Ma nel 2011 gli Spettri fanno la loro nuova apparizione, riemergendo dalle tenebre grazie all’evocazione di quegli esoteristi musicali della genovese Black Widow, che tolgono le ragnatele all’esordio rimasto inespresso. Era oggettivamente un bel lavoro per l’epoca, in cui si cantava la superficialità della vita corrente (“Mondo è stato, mondo è” recita un vecchio adagio popolare) ed il tentativo di trovare risposte tramite l’estraneazione in un altro mondo, qui sotto la metafora di una seduta spiritica, che però farà precipitare l’incauto in un mondo da incubo. Molti gli aspetti ormai datati, ma la musica a tratti suonava come se Tony Iommi fosse rimasto nei Jethro Tull. Spunti comunque interessanti, grazie anche agli assoli all’organo Hammond di Stefano Melani e a quelli di chitarra di Raffaele Ponticiello. Un lunga introduzione indispensabile per comprendere questa nuova uscita, che riprende la storia del suo vecchio predecessore, catapultando il protagonista esattamente 1.001 anni dopo! Per l’occasione vengono usati esattamente gli stessi strumenti dell’epoca, affinché si possa ricreare il medesimo pathos. Addirittura si sforna il vinile incidendolo in AAA, come non accadeva da chissà quanto tempo. Il CD è in ADD, con versioni sia stereo che mono. Si registra l’entrata nel gruppo del sassofonista Matteo Biancalani, che si fa portatore di un maggior dinamismo e di un orientamento decisamente duro, anche se in alcune parti più rilassate ricorda l’approccio a questo strumento dei Pink Floyd a partire da “The dark side of the moon”. Stavolta il personaggio principale (attorno al quale oscillano varie entità), dopo aver oltrepassato la soglia della pazzia per aver guardato nel riflesso di se stesso, affronta un nuovo viaggio mentale e spirituale, in cui il tempo è un tutt’uno. Per comprendere finalmente che non vi è alcun escamotage verso il cambiamento se prima non si debellano i mostri che abbiamo dentro (chiaro riferimento alla psicanalisi, soprattutto al problema del contro-transfert dei terapeuti). La voce di Ugo Ponticello può apparire monotona, ma è probabilmente propedeutica alla storia “maledetta” che si abbatte come una mannaia, in cui si narra di navi che ci vengono a prendere sulla spiaggia e ci portano tra scogli accidentati e notti in cui vige la dannazione. Probabilmente la scelta della masterizzazione, che mirava a ricreare un mondo cupo, ha privato le note di quella ulteriore propulsione di cui avrebbe avuto bisogno. Un motivo in più, quindi, per alzare il volume e comunque apprezzare le parti strumentali con i loro assoli che parlano di vecchia scuola (che la si apprezzi o meno). Pezzi come “La profezia”, inoltre, presentano delle digressioni sicuramente apprezzabili. Alla fine, la voce di Elisa Montaldi (Il Tempio delle Clessidre) parla al protagonista ne “Il delfino bianco”, dando la speranza che ne “La stiva” si possa trovare la chiave della propria serenità, abbandonando l’odio verso il mondo esterno che tanto ci opprime e ci svilisce. La stiva della nave diventa quindi qualcosa di simile alla Montagna della cultura persiana influenzata dal neo-platonismo: un luogo/non luogo all’interno del quale si trova la chiave di se stessi, magari guidati da un maestro invisibile. Ed infatti, la conclusiva “L'approdo” si chiude in maniera rilassata, con la nave che riconduce il travagliato personaggio sulle note dell’arpa celtica di Stefano Corsi, che alla fine suona anche delle belle parti di armonica ben amalgamate col suono di tutti gli altri strumenti. E sembra davvero di poter finalmente far cogliere la serenità – meta alquanto difficile da raggiungere – a chi ha tribolato per più di un millennio. Dategli un ascolto, soprattutto se vi piacciono i riferimenti dei gloriosi primi anni ’70, in cui vi era tanto hard-rock ma anche quel prog che alcuni volevano distinguere sia in hard che dark. Qui, a scanso di equivoci, vi sono entrambe le componenti. E poi, come recita la profezia: «Maledetti in eterno nel buio sul mare sian quelli che gli occhi non aprono in vita». Siete perciò avvisati!
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Michele Merenda
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