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BLURRED VISION Organized insanity Burned Vision Music/Open Eyes Records 2015 CAN

Quando dei canadesi si presentano in trio nel mondo del progressive rock diventa troppo facile e naturale pensare ai Rush. Be’, scordatevi completamente il gruppo di Geddy Lee e aspettatevi una formazione dalle attitudini molto differenti, capace di spaziare da un prog moderno, che deve qualcosina alle varie avventure di Steven Wilson, alla psichedelia, senza disdegnare tuffi nell’hard-rock, nelle melodie à la Beatles, nel pop e nelle atmosfere care ai Pink Floyd, nell’esotismo del Medio Oriente, persino avvicinandosi al rock moderno dei Coldplay. Un legame con i Rush in realtà c’è ed è rappresentato da Terry Brown, che ha curato la produzione di “Organized insanity”. Il chitarrista e cantante Sepp Osley, il bassista Sohl Osley e il batterista Ben Riley sono attivi dal 2010 e hanno ottenuto una certa attenzione di recente, aprendo i concerti degli Uriah Heep in una serie di date in Gran Bretagna. Il loro debutto si intitola “Organized insanity” (nel quale suona anche Joel Lightman alle tastiere) e si apre con “No more war”, un pezzo con un certo tiro, dalla base ritmica molto solida e che presenta variazioni interessanti, fino a culminare con un bell’assolo di tromba, che credo sia campionata, vista la mancanza di informazioni al riguardo nei credits. “Rollin’ on” lascia un’impressione migliore con un hard rock non banale, da power trio molto compatto e alleggerito dagli interventi delle tastiere. Per nulla convincenti quando flirtano con il pop attraverso ballate un po’ anonime e prevedibili, come “Tonight”, la floydiana “Long may you run” e “Arms of our world”e un po’ troppo ruffiani quando cercano accattivanti soluzioni beatlesiane in “Dear John”, “All I wanted” e “Wherever you are”, i Blurred Vision offrono le composizioni più interessanti per gli ascoltatori che cercano il prog ad ogni costo con “Promise” (sulla scia di Riverside e Porcupine Tree), “The keeper” (chitarra in bella evidenza, reminiscenze mediorientali, ottime divagazioni strumentali e cambi di tempo a go-go) e la title-track (a cavallo tra rock sinfonico e hard-prog). Alla fine, riassumendo, si vedono buone basi per merito di un gran lavoro di contorno, tra produzione, professionalità, distribuzione, presentazione, ma analizzando l’aspetto musicale non è che il disco convinca più di tanto, avanzando con alti e bassi tra qualche interessante intuizione e momenti che non brillano troppo.



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Peppe Di Spirito

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