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ICHTHYANDER DAD'S ONLY DOLPHIN |
At One Music Fest 2014 |
autoprod. |
2015 |
UKR |
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Questo nome così ingombrante e difficile da ricordare, che si dice sia nato dalla traslitterazione di una improvvisazione vocale, non è l’unico problema che questo gruppo di Kirovograd ha dovuto affrontare. Nati nel 1994, debuttarono in uno dei club della loro città e presto prepararono un demo. La registrazione raggiunse un critico musicale tedesco che ne rimase favorevolmente impressionato tanto da scriverne una bella recensione sulla rivista “Heavy, Oder Was!?”. Questo riconoscimento aprì la strada verso possibili collaborazioni ma tutto si fermò purtroppo ad uno stadio embrionale. La band, che pure era artisticamente cresciuta sviluppando uno stile eclettico e personale, giunse prematuramente allo scioglimento. Erano state le circostanze della vita ad allontanare i musicisti ma non è detto che si debba rimanere per sempre succubi del destino ed è così che dopo quindici anni gli Ichthyander Dad's Only Dolphin (mi ci sono voluti alcuni minuti a scriverlo) tornano con la loro line-up originale che include Dmitry Dorosh alla chitarra, Olena Yeremenko al violino, Viktor Sirotin alla batteria, Oleg Vorona al basso e Sergei Kadenko alle tastiere. Materiale vecchio, completamente riarrangiato, e nuove composizioni sono state messe assieme e in occasione della reunion è stato organizzato un grande concerto nella città natale del gruppo che si è tenuto il 14 Dicembre del 2014. Il risultato lo potete ascoltare proprio in questo CD e vedere persino nell’allegato DVD. Devo dire innanzitutto che ritornare con un prodotto dal vivo, senza poter contare sui tanti artifici che uno studio di registrazione può offrire, è una prova di grande coraggio. Ma evidentemente il nostro quintetto è molto preparato: se non fosse per la lunga presentazione col sottofondo del pubblico che si ode subito in apertura sarebbe difficile capire all’istante che si tratta di un evento dal vivo. Grinta, precisione, pulizia di esecuzione sono fattori che giovano molto a questo album. I punti di riferimento sono tanti e ben assortiti. Forse anche per un certo modo spavaldo e cameristico di suonare il violino i primi che mi sono venuti in mente sono i Lost Wold di Andrei Didorenko, gruppo russo che guarda caso debuttò proprio negli anni Novanta. Sperimentali e allo stesso tempo rigorosi col loro stile dai riflessi accademici, gli Ichthyander (non fatemi scrivere il nome per intero…) inglobano come se nulla fosse in un unico e gradevole contesto musicale frammenti Crimsoniani, soft fusion, folk, visioni della Mahavishnu Orchestra e Floydiane e intarsi di matrice classica, il tutto rinfrescato da un approccio moderno, patinato e ammiccante. Scordatevi quell’appeal da nostalgiche vecchie glorie che si sono ricordate all’improvviso di saper suonare uno strumento. Non so che abbiano fatto nel frattempo questi cinque ma sicuramente non hanno mai smesso di suonare e di farlo con grande entusiasmo. L’apertura, “Through the Gates of the Universe” è addirittura fulminante con quegli intrecci spericolati di violino e chitarra, così smaccatamente Crimsoniani. Subito vengono rovesciate tutte le carte in tavola e si capisce che qui si fa davvero sul serio. Vengono snocciolati assoli su assoli, ora tocca alla chitarra, ora al sax (non lo avevo ancora detto ma troviamo ben nove ospiti sul palco con viola, flauto, due ulteriori chitarre, tastiere e violoncello), ora al violino stregato e ora alle tastiere. Gli incastri sono spigolosi, i suoni potenti ma c’è anche tanta melodia che permette alla musica di viaggiare solida e veloce lungo la sua traiettoria. Se qualcuno ricorda i giapponesi KBB questo potrebbe essere un altro buon termine di paragone, anche se la ricetta di questa band è decisamente più varia. “Opus 16” è un altro brano dall’affondo netto e preciso. Alle fughe dal sapore un po’ spaziale, con gli strumenti che si intrecciano in modo vorticoso e compatto, si alternano improvvise aperture melodiche orchestrali, abbellite da limpidi fraseggi di chitarra, giusto per far capire che non è una pura questione di muscolatura ma anche e soprattutto di ispirazione e cervello. Ovviamente non possono mancare le ballad ma anche qui il gruppo si inventa qualcosa di davvero particolare: “Castles of Birmingham” è un lento spettrale dal retrogusto gotico con archi, tastiere, flauto e una splendida chitarra acustica, sottofondo ideale per un viaggio in carrozza lungo sentieri umidi e nascosti dalla fitta nebbia. E’ strano passare da un simile quadro a un brano jazzy e umorale come il successivo “Unmeasured Spaces”, anch’esso decisamente Frippiano ma con sconfinamenti in ambiti fusion più decisi ed ottimi assoli di sax e chitarra. In effetti c’è tantissima carne al fuoco qui dentro e c’è spazio anche per le cover, una, “Starless”, a chiudere il CD e l’altra, “The Boys in the Band” (non dico a chi appartengono perché so che siete bravi), proposta come finale alternativo, questa volta nel DVD ma in oltre un’ora di musica non si può certo sostenere che queste abbiano rubato spazio alle idee del gruppo. Le riprese video sono amatoriali ma di discreta qualità e non troppo statiche e comunque posso dire che quando il gruppo è in gamba è piacevole vedere ciò che succede sul palco. Il mio desiderio sarebbe però quello di poter ascoltare la band in un contesto più strutturato come quello, appunto, dello studio di registrazione: secondo me potrebbero accadere grandi cose, anche se quello che posso ascoltare in questo CD non mi dispiace affatto…
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Jessica Attene
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