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SECONDS BEFORE LANDING II autoprod. 2014 USA

Ci si era lasciati con il master mind John Crispino subito dopo l’ascolto di un debutto che lasciava intravedere delle buone intuizioni in ambito prog/space, in attesa di capire se il concept con cui aveva esordito tramite la sigla Seconds Before Landing facesse parte di qualcosa di più complesso e quindi da valutare tramite altri parametri. Non è dato sapere se il sequel faccia parte di quella storia, fatto sta che l’elettronica prende decisamente il sopravvento, prevedendo l’uso ritmico di campionature ad opera dello stesso Crispino e quindi escludendo in buona sostanza – tranne alcuni casi sporadici – la tradizionale batteria. Tutto appare oscuro, con questa luce gelida del profondo spazio siderale che si scorge sullo sfondo, preludio di qualche strano mondo in cui i ritmi biologici convenzionali saltano del tutto, come raffigura l’inquietante immagine del bambino col volto da vecchio nell’interno in bianco e nero della copertina. L’iniziale “Big Train”, scandita dal sax di Jamie Peck, è stata pubblicizzata come una composizione dalle contaminazioni jazz, che nella realtà sembrerebbe più che altro un esempio di lounge music (comunque raffinata) da locale notturno. Ci sono pezzi che traggono sicuramente spunto da quel “The Wall” (soprattutto gli intermezzi) di floydiana memoria, come la seconda parte di “Hey Dad” (fin dal titolo!) – in cui imperano suoni vari e, quasi sottotraccia, la nervosa chitarra di Steve Schuffert – o “Etiene”, decisamente più indefinita nei contorni. Ma a pensarci bene questo sarebbe potuto essere il frutto di qualche esperimento solista di Roger Waters, perso nella più astratta e allo stesso tempo lucida delle alienazioni, come in “My Perfect Girl”, il cui tagliente finale è dettato dal flauto suonato sempre da Peck (autore anche delle partiture di pianoforte di tutto l’album). Non è certo un caso che ancora una volta la masterizzazione venga curata da Andy Jackson, due volte nominato al Grammy ed ingegnere del suono proprio dei Pink Floyd.
Un canto gregoriano apre “The Great Deceiver”, forse collegata col precedente lavoro, che si mostra come il pezzo più diretto, grazie al quale si possono mettere in mostra le abilità creative sulle sei corde di Schuffert, brano reso ancora più evocativo dalle voci di Carrie Maria Jackson e Vanessa Campagna. Presente come ospite anche stavolta Trey Gunn, con bowed bass e warr guitar su “Don't Want To Feel This Way”… ma sarebbe potuto essere chiunque! Come del resto non si sente affatto la presenza dell’altro ospite alla chitarra ritmica, John Palumbo dei Crack The Sky.
Per il resto, i pezzi galleggiano nell’ambient tendente alla visione cosmica, da sentire fino in fondo più che altro per qualche spunto interessante di Crispino alla tastiera-midi o gli assoli del solito Schuffert, come nella conclusione di “Silent Bird” e “Enoch”. Di sicuro, l’album necessita di molti ascolti. In prima battuta, si avverte una vera e propria “pochezza”. Dopo, le composizioni acquisiscono nuove connotazioni. Nulla però che possa avvicinare il prodotto in questione a qualcosa di imperdibile. Viene consigliato di ascoltarlo con delle cuffie, per coglierne tutte le sfumature. Forse è vero. Però ci sono anche pezzi simil-dance decisamente irritanti, tipo la conclusiva “What Chu Do”. Siete quindi avvisati sulla tipologia del lavoro nel suo complesso.



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Michele Merenda

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