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DWIKI DHARMAWAN |
So far so close |
Moonjune Records |
2015 |
INDN |
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Dopo diverse produzioni di album di pregio come quelli di Dewa Budjana e Tohpati, la MoonJune Records, evidentemente affezionata ad un certo jazz indonesiano, accoglie sotto la propria ala un altro musicista proveniente da quella terra lontana: trattasi questa volta di un tastierista, Dwiki Dharmawan. Il suo disco "So far so close", fra l'altro, vede coinvolti entrambi i chitarristi sopracitati. Stimato e molto apprezzato dai suoi connazionali, Dharmawan è considerato una vera e propria icona culturale nella sua patria. Oltre che tastierista, pianista, compositore, arrangiatore ed esecutore, è un fervido attivista per la pace e non di rado queste due sue passioni hanno trovato un punto d'incontro, dando vita ad un qualcosa di concreto (il progetto World Peace Trio, intrapreso con il giordano Kamal Mussalam ed il polistrumentista israeliano Gilad Atzmon, ne è un chiaro esempio). In trent'anni di onorata carriera, Dharmawan vanta innumerevoli esibizioni in più di sessanta Paesi, sia come solista che come membro e/o leader di altri progetti, primo fra tutti quello dei "Krakatoa", che detiene il maggior riconoscimento a livello nazionale. Nel 2015 poi, coadiuvato come precedentemente detto da Budjana e Tohpati alle chitarre, registra negli studi di Los Angeles "So far so close", album di matrice fusion che vede la partecipazione di altri validi musicisti: Jimmy Haslip al basso, Chad Wackerman alla batteria, I Nyoman Windha al gamelan e flauto di bambù nel brano di chiusura e Jerry Goodman (storico violinista della Mahavishnu Orchestra) in quello d'apertura. Nonostante questi nomi di spicco e le premesse appena descritte, il risultato finale, ahimè, non è dei più entusiasmanti. Questo perché, dopo una parte iniziale decisa e coinvolgente in cui l'affiatamento fra i musicisti è quasi palpabile, l'album prende una piega differente; inizia ad arrancare e ad adagiarsi su se stesso, facendo gradualmente scemare l'attenzione dell'ascoltatore e lasciando un generale senso d'incompiutezza. Spiace dover fare tali considerazioni, soprattutto quando sotto c'è un ottimo approccio tecnico (senza contare tutta la mole di lavoro e d'impegno che la pubblicazione di un disco richiede), ma il valore complessivo di un album è dato anche dalla sua capacità di risultare omogeneo. Come dicevo, però, la prima parte del lavoro è degna di lode; in Arafura il frenetico violino elettrico insegue le straripanti e irregolari note del mini moog e le fluenti linee di basso, a tratti funky, costantemente accompagnato dalla puntualità ritmica della batteria. In perfetta simbiosi fra loro, generano un clima elegantemente frizzante, caratterizzato da solistiche che si alternano a lunghi riff in contrappunto. Anche la title track, seppur priva del violino di Goodman, vanta queste qualità. L'intro, che rimanda vagamente alle sonorità di Tap di Pat Metheny e John Zorn, è ampiamente efficace. A mano a mano gli strumenti fanno il loro ingresso e si dischiude questo ventaglio di presenze strumentali che crea suspence, attira, incuriosisce e sfocia successivamente in una trama melodica sempre più fitta ed intricata. Senza troppi giri di parole, potremmo tranquillamente considerarlo il brano più bello di tutto l'album. Non pienamente convincente invece la scelta di alternare brani movimentati ad altri più pacati e dolci come Bromo, che custodisce ampie e rarefatte atmosfere, o Whale dance che, con naturalezza e un filo conduttore ben delineato, passa dalle tastiere alla soave chitarra acustica, aprendo le porte ad uno splendido solo di basso eseguito da Haslip. I successivi brani sono di tutt'altra pasta: spuntano sprazzi sinfonici e siparietti emotivamente scollegati in The return of Lamafa, suoni freddi e futuristici male accostati a tonalità barocche in NYC 2050 e un disordine spigoloso e un tantino fuori contesto in Jembrana's fantasy, un discutibile azzardo nel voler creare un qualcosa di sperimentale e alienante. Inoltre la presenza solo sporadica di frammenti che rimandano alla cultura orientale, rende l'intero lavoro più simile ad uno stereotipo che ad una genuina manifestazione della propria identità e delle proprie origini. Malgrado ciò, l'elevata caratura dei musicisti conserva la buona fattura del prodotto, che mi sento comunque di consigliare agli amanti del genere, sebbene si percepisca la mancanza di un collante, di una fusione emotivo-concettuale tipica di chi i dischi li fa con l'anima e non li studia a tavolino.
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Silvia Giuliani
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