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ERNESTO VIDAL & CÍA |
Fragmentos |
autoprod. |
1999 (Viajero Inmovil Records 2016) |
ARG |
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Ristampato il secondo album solista strumentale datato 1999 dell’argentino Ernesto Vidal, bassista dei Zonda Projeckt che, rispetto alla band madre, denota uno stile decisamente più cupo ed alienante, perfettamente in linea con la copertina grigia e sgranata scelta per l’occasione. Le influenze dichiarate sono quelle di Robert Fripp, Miles Davis e Mike Oldfield, dando comunque la sensazione di aver di fronte una specie di Steven Wilson rimasto irrimediabilmente intrippato a causa di effluvi color Cremisi, che hanno indirizzato le esecuzioni su binari sonori distorti e senza fine apparente. La proposta in sé presenta dei contenuti anche piuttosto interessanti, ma è la (auto)produzione a rovinare il risultato finale. La batteria elettronica di Tuti Vega, che ad ogni determinato giro si mette a “pestare”, sa essere non poco irritante; certo, contribuisce a ricreare l’effetto di alienazione estraniante, ma un altro tipo di approccio avrebbe potuto conferire all’intero album ben altro spessore. Oltre al basso, Vidal suona anche la chitarra e si affida a varie diavolerie tecnologiche degne del succitato Robert Fripp. Vi sono brani in cui fa tutto da solo, come nell’intro “Pax”, che viaggia verso confini floydiani. Composizioni d’atmosfera tipo “Candil Del Alma”, dedicata ai bambini di strada, oppure “Ojos Del Sur”, o magari “La Paleta Del Pintor”, che col suo pianoforte viene a sua volta dedicata all’artista Victor Delhez. Ci sarebbero pure i due minuti di melodica distorsione che compongono “Un Blues Para Valen”, con cui si rende omaggio all’amata Valentin. Ben altro livello è quello di “El Diablo En El Campanario”, descritta dall’autore come un’immaginaria jam tra Robert Fripp e Miles Davis, dove quest’ultimo viene ben interpretato dalla tromba di Luis Mariglian, mentre Fripp risulta ipoteticamente impersonato da Vidal stesso. Volendo parlare di brani maggiormente elaborati, occorre allora partire dalla seconda “Fragmentos De Un Blues Apócrifo” (titolo notevole!), tra King Crimson e le prime cose dei peruviani Flor de Loto; il flauto di Beatriz Plana porta alla mente delle visioni tumultuose all’interno di una foresta tropicale, con il buon intervento chitarristico di Mario Mátar (anche lui come Vidal e Vega nei Zonda Projeckt), duro e spigoloso, spesso però intramezzato da quella che già è stata definita una batteria “pestona”. Da questo punto di vista anche “Factor Comùn” risulta molto sostenuta, però rovinata da un drumming elementare e volutamente “primitivo”. C’è poi “Quetzal”, con la chitarra di Kubero Díaz, pezzo presentato come una visione crimsoniana dell’intelletto. A seguire le due parti di “Morgiane”, nella cui prima sezione vi è qualcosa della tragica severità tipicamente nipponica, espressa dalle sei corde di Carlos Sisinni. La seconda parte è invece aperta dal flauto guizzante di Beatriz Plana, con una visione musicale decisamente più ariosa, in cui vi suona ancora Kubero Díaz. Altra escursione “neurologica” è “Siesta En El Pueblo”, quasi otto minuti divisi in quattro parti, con l’evocazione di vari stati mentali (intro suonata da Alejandro Manzano). Verso la fine c’è un trittico di pezzi in cui i tre Zonda Projeckt danno il meglio: “Pajaros Metálicos" somiglia a “Cross Town Traffic” (Jimi Hendrix, a scanso di equivoci), il cui perfetto proseguimento è “Ojos Del Sur II”, composizione molto “liquida”, con assoli riusciti che ne fanno forse il pezzo migliore. Bella anche la chiusura con “Las Presencias (un fragmento de Draghi)”, sempre con Mario Mátar sugli scudi. Un album sicuramente particolare, con spunti talvolta davvero interessanti, che però, come detto, risente molto della produzione. Ma magari la bassa fedeltà era voluta, dirà qualcuno… Comunque, è lecito attendersi una nuova pubblicazione solista che risalti per la sua maggiore incisività. Le capacità ci sono.
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Michele Merenda
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