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THE SKYS Journey through the skies autoprod. 2015 LIT

Il terzo album in studio della principale prog band lituana dovrebbe segnare la sua definitiva ascesa nei ranghi della considerazione internazionale, stante il prosieguo di collaborazioni importanti, alcune già iniziate con l’album precedente, quali quelle di Snowy White, Rob Townsend, Anne-Marie Helder, Tony Spada, Dave Kilminster e quasi tutti i membri dei Lifesigns, nonché la presenza in diversi festival in giro per l’Europa ed America. Oltre a ciò, è sicuramente positivo che la band si presenti con una formazione finalmente immutata e consolidata, sempre guidata dal chitarrista e vocalist Jonas Čiurlionis.
Alla resa dei fatti, quello che ci troviamo ad ascoltare è in verità un album piuttosto insignificante, abbastanza ben realizzato a livello strumentale e di registrazione, ma con un cantato che non si può certo definire gradevole (tranne i contributi di Božena Buinicka, tastierista e seconda vocalist) e una costruzione dei brani che lascia molto a desiderare. Le atmosfere paiono essere abbastanza gradevoli, con molte sonorità floydiane e blandamente new Prog, ma i brani paiono non decollare mai, giungendo al termine senza aver mai acquisito una propria qualsivoglia personalità. La durata media dei brani è molto breve, superando solo in un paio di casi la soglia dei 5 minuti; questo, al di là di essere di per sé un difetto, lo diventa quando l’ascolto non riesce a colmare un senso di incompiutezza. Raramente si va al di là di mere atmosfere tastieristiche su cui si sovrappongono estemporanei riff (con sporadici assoli) di chitarra e un cantato che, sia pur tecnicamente non riprovevole, appare sforzato e poco gradevole all’ascolto.
E’ innegabile che di quando in quando alcune canzoni dell’album riescano a catturare un sia pur minimo apprezzamento; senza dubbio il brano conclusivo “Love of Life” è da annoverare tra gli episodi migliori (il contributo vocale - e tastieristico - di Božena è maggiore qui… sarà quindi un caso?), così come alcune cose gradevoli sono racchiuse in “Virtual Reality”, con le sue atmosfere delicate allietate da una chitarra classica e un bell’assolo di sax, o “The Ancient Indian’s Song”, caratterizzata da qualche timida sonorità orientale.
Viene però da chiedersi quale sia lo scopo di un tal spiegamento di forze e di ospiti quando il risultato sembra talvolta legare mani e piedi alla possibilità di far volare la musica fuori di goffe andature simil-floydiane (con sonorità e ambientazioni a metà strada tra “The Wall” e “Animals”). Un disco ben poco attraente, per quanto mi riguarda.



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Alberto Nucci

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