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VASIL HADŽIMANOV BAND |
Alive (feat. David Binney) |
Moonjune Records |
2016 |
SRB |
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È stato già ampiamente decantato che, nel vasto firmamento musicale, la “costellazione” del Jazz copre uno spazio di cielo davvero ampio, con stelle luminose ed altre meno appariscenti. Quest’ultime, passandole sotto le lenti degli appositi strumenti di studio, denotano spesso e volentieri caratteristiche comunque interessanti. Se ne è accorta da tempo la Moonjune Records, il cui catalogo viene sempre più impreziosito da pubblicazioni che si muovono lungo le varie ramificazioni del genere, tra volti noti e nuove scoperte. Tra queste vi è la band del pianista e tastierista serbo Vasil Hadžimanov, diplomato al Berklee College of Music di Boston, nonché indiscusso figlio d’arte dei cantanti Zafir Hadžimanov e Senka Veletanlic, famosissimi in ciascuna patria d’origine, rispettivamente Macedonia e Croazia. Vasil, quindi, crea una fusione tra il jazz-rock e la cultura dell’intera ex-Jugoslavia, dando anche il necessario spazio compositivo ai vari compagni d’avventura. “Alive” è il sesto album (i precedenti sono stati tutti ristampati nel 2013 dalla OverJazz Records), i cui brani sono stati estrapolati dal tour in Serbia durante il mese di ottobre 2014. Dimensione live e alta fedeltà sonora perfettamente bilanciate, il cui sound viene ulteriormente impreziosito dall’ospite David Binney, sassofonista statunitense con una corposa discografia solista alle spalle. Lo stile del gruppo serbo ha sempre guardato – come già accennato – a quel compendio di jazz-rock e fusion imperniato sulla cultura musicale di una specifica zona geografica, rimanendo comunque debitore delle lezioni impartite da Joe Zawinul e dai suoi Weather Report (a proposito di stelle luminose…); da questo momento, anche grazie alla presenza di Binney, le soluzioni sembrano ancora più “aperte”, tendenti maggiormente all’approccio free, magari ricordando un astro intramontabile come John Coltrane. I fraseggi dell’ospite americano a volte sembrano dei veri e propri riff, che ben si innestano nelle composizioni più lunghe, in cui l’ensemble ha modo di esprimersi cambiando anche repentinamente tema. Gli undici minuti abbondanti dell’inziale “Nocturnal Joy” sembrerebbero permeati dalle atmosfere notturne dettate dal titolo stesso, con un andamento quasi lounge che ben presto lascia il passo ai tasti d’avorio, per poi dar libero sfogo ad un andamento sicuramente più sbarazzino, che ricorda le composizioni maggiormente allegre di Theo Travis, con un Binney felicemente scatenato. I dieci minuti della seguente “Zulu” si aprono con una ritmica funky/jazz in cui la chitarra di Branko Trijic viaggia lungo le spedite coordinate dei tedeschi Matalex di “Jazz grunge” (1997), in un tour de force sempre più vorticoso e distorto, grazie anche alla sezione ritmica di Miroslav Tovirac (basso) e Pedja Milutinovic (batteria); la voce astratta del percussionista Bojan Ivkovic interrompe però tutto, andando a duettare con le note di Binney, preludio di un lungo proseguimento introspettivo che coinvolge il pubblico in tutto e per tutto, in cui il sassofonista si erge come protagonista assoluto, seguito poi a ruota dalle tastiere di Hadžimanov che mettono in pratica la lezione del già citato Zawinul. Continuando a parlare di brani lunghi, occorre citare i dodici minuti e mezzo della conclusiva “Otkrice Snova”, introdotti da effetti, percussioni e fraseggi di basso che ricordano alcune scelte stilistiche del compagno di scuderia Dewa Budjana, anche se qui il succitato effetto lounge è sicuramente più pronunciato e voluto. Poi però sale in cattedra Hadžimanov, prima di lasciare il consueto spazio alle parti di sax. L’alternarsi di atmosfere soffuse e virtuosismo jazzistico ha piena realizzazione anche in “Uaiya”, che mette in mostra un buon lavoro del basso in fase solista, mentre “Dolazim” (nella copertina è inserita erroneamente al terzo posto, quando invece si trova al quarto) è decisamente più sperimentale, con inserimenti finali di chitarra che fanno pensare ad un Jimi Hendrix che sta provando le sei corde in qualche deserto sconfinato. E se si parla di esperimenti, da seguire quelli della funkeggiante “Tovirafro”, persa tra strani vocalizzi inseriti in una tensione musicale sempre crescente. Come buona parte delle pubblicazioni dell’etichetta newyorkese, anche questa non è di facilissima fruizione e mette in mostra dei contenuti molto complessi, che magari potrebbero suonare eccessivamente retorici e forzatamente ad effetto. Si tratta però di una prova che merita ben più di un ascolto e che piacerà sicuramente agli amanti delle soluzioni jazz-rock più aperte. E la realtà di Vasil Hadžimanov sembra essere in costante evoluzione, quindi vale la pena di seguirla per vedere cosa sarà in grado di combinare nell’immediato futuro.
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Michele Merenda
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