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VIRUS Memento collider Karisma Records 2016 NOR

I norvegesi Virus (nulla a che vedere con l’omonima band tedesca che negli anni ’70 diede alla luce due bei lavori) approdano alla connazionale Karisma, la quale pubblica il loro quarto album. Una produzione discografica che risulta esigua, visto che il trio preso in esame suona da oltre quindici anni, ma quanto proposto è comunque da centellinare, sia in fase creativa che durante quella di fruizione. Difficile concepire qualcosa di simile a getto continuo, così come risulta ostico poterne usufruire con regolarità. I tre musicisti sono tutti passati, prima o dopo, per le fila dei Ved Buens Ende ed è sicuramente a questo gruppo avantgarde che bisogna far riferimento per cominciare. Brani che si basano sullo sviluppo della ritmica tanto serrata quanto poco lineare, con il basso di Petter Plenum Berntsen che in questo contesto fa decisamente la parte del leone, seguito dal drumming continuo di Einar Einz Sjursø. La chitarra di Carl-Michael Czral Eide svolge il curioso compito di “riempimento”, per un effetto che appare molto omogeneo (se non ripetitivo) in tutti i sei lunghi brani. Lo stesso Eide è autore del cantato teatrale ed autoritario, dittatoriale, che con note di superiore scherno sembrano voler ricordare che tutti devono da un momento all’altro morire (magari durante qualche catastrofe bellica). Il problema è che quanto sentito nell’iniziale, interessante e decisamente spiazzante “Afield” poi diventa il leitmotiv di tutto l’album. Si potrebbe pensare ai Voivod di “Outer limits” (1993) e soprattutto “Nothing face” (1989), in particolar modo su “Steamer” e “Gravity Seeker”, dove peraltro sembrerebbe suonare un assolo proprio Dan Mongrain, cioè il chitarrista della band canadese testé nominata. Il condizionale è d’obbligo, perché è dato sapere solo che su questo lavoro Mongrain suoni un assolo di chitarra; in che brano lo si può solo intuire, anche perché quello sentito è l’unico presente (apparentemente) in tutto l’arco di tempo… o comunque l’unico con una struttura tipica dell’assolo stesso.
Ma del resto, da un album definito dai diretti interessati come "a tribute to extinct instincts and Chernobyl Wildlife"… che altro ci si potrebbe aspettare? I Voivod (ed anche i primi Heaven’s Cry, nati da una costola della band madre), con le loro visioni alienanti dettate da città industriali spersonalizzate, sembrano così il riferimento concettuale ideale per il terzetto norvegese, che altrimenti non somiglierebbe a nessun altro con il suo – chiamiamolo pure così – prog-metal atipico (eccezion fatta per i succitati Ved Buens Ende). Sicuramente bravi tecnicamente (anzi, forse qualcosa di più), ma i brani avrebbero bisogno di maggior varietà, anche solo di differenziazione più marcata tra l’uno e l’altro. Magari variando ogni tanto l’impostazione vocale.



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Michele Merenda

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