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RED BAZAR Tales from the bookcase White Knight Records 2016 UK

I RedBazar sono una band inglese, formata da Paul Comerie alla batteria, Mick Wilson al basso, Andy Wilson alle chitarre, Gary Marsh alle tastiere e Peter Jones alla voce, attiva da una decina d’anni. La band, capitanata dall’ottimo vocalist Peter Jones, cantante anche dei Tiger Moth Tales, combo dedito ad una forma piuttosto classica di new prog, è giunta al terzo lavoro in studio, quarto se si considera anche l’E.P. del 2013. Il risultato di questo nuovo lavoro si può riassumere pensando ad una miscela di pop, rock, new prog e prog metal. Peter Jones ha una gran bella voce.
La recensione potrebbe anche finire qui, sarebbe una cattiveria e, forse, anche poco professionale. Vedo quindi di chiarirmi e chiarire (spero di riuscirci) le idee sul questo lavoro.
L’ascolto di questo disco mi sta scatenando una ridda di domande, retoriche, per lo più e quasi tutte rimarranno senza risposta.
Innanzi tutto, può una band con forte dominazione chitarristica essere paragonata ai Genesis? Insomma, ci credo poco. Può una band dalle sonorità moderne e taglienti essere inserita nel prog sinfonico? Mah? Forse, resto dubbioso, seppur possibilista. Può una band tutto sommato nella media prog – new prog – pop-rock, far gridare alla meraviglia il popolo dei progster, divenendo di colpo quasi un’icona della rinascita progressiva? Decisamente sì, è già successo, succederà ancora.
Ora mi levo dall’impiccioso questionario e passo alla musica. Per una band partita con una proposta strumentale, approdare ad un lavoro con una grandissima percentuale di cantato dev’essere un salto non da poco e un deciso cambio verso una versatilità che lo strumentale tout-court non consente. La fortunata casualità di trovare un vocalist così preparato, elastico, preciso, personale e piacevole è davvero la ciliegina sulla torta. Torta composta con otto fette di grandezza molto variabile con punte superiori ai dodici minuti e una pseudo suite in due parti di quasi venti minuti complessivi. L’album, anche se non apertamente dichiarato, sembrerebbe un concept sullo sviluppo della giornata da inizio, luci e notte e ogni momento un diverso stato d’animo. Niente di nuovo, direi. La cosa che più mi si addice, musicalmente e tematicamente è uno “Smallcreep’s day” di Rutherford con un po’ in ritardo sui tempi.
Strumentalmente e tecnicamente ci sono ottime basi, si sentono: c’è della qualità, ci sono chiari elementi per poterlo dire. Ottime tastiere, molto varie un po’ troppo spesso messe in secondo piano da una chitarra forte, hard, talvolta quasi metal, che si lancia in assolo poderosi a tratti, ma più spesso gilmouriani, anzi direi filo rotheryani. Una chitarra spesso sulla scia dei recenti sbandamenti progressivi, al limite del burrone oltre il quale Wilson regna sovrano, ma che, al contrario, quando resta nelle righe sa essere anche piacevole. Ottime le figure ritmiche quando le trame si fanno più complesse, come in “City and the Stars” e in “Sunset for a New World”, forse il brano migliore del lavoro, più semplici e quasi scontate nelle parti più hard e di impatto, comunque ottima tecnica e ottima pulizia. Pur dotata di una certa varietà mi viene da dire che l’episodio meno riuscito del disco sia proprio la pseudo suite in due parti “Queen of the night”: un po’ di Rush e un po’ di Porcupine Tree miscelati a recenti Marillion, Sylvan, Big Big Train, IQ e Steve Thorne, ma con meno fantasia e un deciso grado di ripetitività mista a fraseggi scontati e preannunciati, soprattutto nella seconda parte.
Chiudendo la recensione, non vorrei essere sembrato troppo severo o tranchant, perché il risultato finale rimane comunque piacevole, godibile per un disco che scorre via senza peso e, pur essendo distante da ciò che normalmente intendo come prog, non ne è del tutto privo e con diversi ascolti successivi tutto ciò accresce. Visto che trasparrà chiaramente dalle mie parole, un certo grado di insoddisfazione, concludendo, segnalo quella che è la pecca principale. La pecca è nel dettaglio, nell’approfondimento, perché questo lavoro sembra lasciare indietro molte cose: le affronta, le accenna e poi, forse volutamente, le mette da parte, è questo che non consente la totale soddisfazione.



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Roberto Vanali

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