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HANDS Caviar bobsled ShroomAngel Records 2015 USA

E’ una storia un po’ particolare quella dei texani Hands; la band è nata negli anni ’70 in uno stato indubbiamente refrattario a tutto ciò che non sia country music o southern rock. La durata del gruppo non fu neanche troppo breve, anche se non riuscì a pubblicare niente di tangibile nell’arco dei comunque pochi anni della sua vita. Fortunatamente gli Hands ebbero comunque modo di registrare un bel po’ di materiale e queste registrazioni sono state ripescate e pubblicate dall’altrettanto texana label ShroomAngel nella seconda metà degli anni ’90 su tre album. Dopo di ciò, il fondatore Ernie Myers (voce e chitarra) ha pensato bene di riprendere in mano il gruppo e tornare a suonare e comporre nuovo materiale. “Caviar Bobsled” è il terzo album pubblicato da allora e vede la presenza di due altri membri fondatori della band, il fiatista Skip Durbin e il batterista John Rousseau, mentre il tastierista Michael Clay, che pure aveva risposto presente alla reunion, pare aver mollato la compagnia. Accanto a loro troviamo una pletora di musicisti, ben dettagliata nel booklet, che arricchiscono la miscela musicale, tra cui Mark Cook degli Herd Of Instinct.
Per chi ha avuto modo di ascoltare i precedenti album degli Hands, i special modo i primi due, che rimangono senz’altro i più consigliati, la proposta musicale contenuta in questo CD non riserverà grosse sorprese, quanto meno a livello generale. Senza dubbio l’ispirazione, con gli anni, si è un po’ annacquata, per un motivo o per un altro, e l’album in questione è piuttosto altalenante, ma si tratta comunque di un lavoro ben più che dignitoso e rispettoso del passato della band, ancorché questo sia riemerso solo di recente.
La mistura di Prog a stelle e strisce che ci può ricordare Kansas, Happy The Man o Gentle Giant è ancora ben presente, sia pur stemperata, sin dalla prima canzone, “The Last Song” (!), che, guidata dalle tastiere vintage di Shannon Day, aggiunge un feeling beatlesiano che accompagna l’umore quasi pastorale della canzone. “Heavy Lifting” inizia invece con un feeling più crimsoniano (periodo anni ’80), con una chitarra alla Belew che lascia poi spazio ancora ad umori che ci portano verso Liverpool, con ampi spazi occupati dai fiati. “Discourse on Method” invece ha connotati più pop ed accessibili, con una ritmica uniforme, ed è una traccia piuttosto dispensabile, così come la brevissima ed inutile “Drum Roe”.
“Halfway to Salem” è invece un brano molto delicato e morbido, con un cantato appassionato di Ernie (che in generale non è che comunque ci soddisfi più di tanto) che si staglia su linee di fiati e chitarra, con uno strano intermezzo di violoncello e chitarra Belew-iana che va tuttavia a spezzarne la linearità. “Still Life”, di contro, è un pezzo intricato e spigoloso, introdotto da toni drammatici sostenuti da un organo urlante, con una chitarra finalmente distorta.
La successiva “Talking Points” è una breve e deliziosa canzone dalle tinte folkish cui segue la deliziosa “Like Me”, di certo tra i brani migliori e reminiscenti del passato. I due minuti e poco più di “Into the Night” sono un esercizio di stile per violoncello, gradevole anche se inquietante, e “Shards”, che ne sembra la continuazione, ci riporta su atmosfere folk acustiche.

“Alis Volat Propiis” è caratterizzata dalla Warr guitar di Cook che ci conduce su un pezzo dai chiari connotati crimsoniani (Trey Gunn è uno dei più noti utilizzatori di questa chitarra, peraltro), anni ’80 ma anche con vaghe assonanze alla “Starless”. “This and That” torna nuovamente su deliziosi umori folk (ma con un tocco di Gentle Giant), ma sono inesorabilmente gli 11 minuti e mezzo della conclusiva “Busy Signal” ad attirare la nostra attenzione. Si tratta di un brano che, pur non offrendoci fuochi artificiali, rappresenta un po’ tutta la summa della musica che quest’oggi ci hanno proposto gli Hands.
Un’ora e 13 minuti, come gentilmente viene specificato nelle note, passano tutto sommato piacevolmente; la musica degli Hands è sicuramente meno scapestrata e scoppiettante rispetto agli esordi degli anni ’70, di certo meno d’impatto e con minori attrattive ma, come dicevo all’inizio, rispettosa di com’era un tempo. L’album è consigliabile solo se già ne conoscete i predecessori, a mio parere; contrariamente si rischia di essere fuorviati e peraltro di non apprezzare a dovere ciò che siamo ad ascoltare. Va bene… questo non è un segnale proprio positivo…


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Alberto Nucci

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