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HOLLOW WATER |
Rainbow’s end |
autoprod. |
2016 |
UK |
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Nati come duo incentrato sulle figure del tastierista Alan Cookson e del chitarrista Huw Roberts, gli Hollow Water si sono col tempo evoluti, puntando su una fitta rete di collaboratori provenienti da svariati altri paesi, dagli Stati Uniti alla Serbia, dalla Germania alla Svezia, passando anche per l’Italia. Un modo di fare sicuramente molto in voga al giorno d’oggi, grazie alla tecnologia che permette lo scambio di idee e di materiale tra musicisti separati da distanze geografiche anche notevoli. A volte si ottengono risultati lodevoli anche partendo da queste basi, ma in altre occasioni (e, lo anticipiamo subito, è questo uno dei casi) probabilmente il mancato faccia a faccia tra i personaggi coinvolti crea più confusione che altro. Puntando su un progressive rock di estrazione sinfonica molto classica, gli Hollow Water realizzano nel 2016 “Rainbow’s end”, un concept album col quale viene narrata una storia fantascientifica, che si può seguire anche attraverso otto pagine di fumetti all’interno del booklet. Purtroppo, però, i risultati artistici sono abbastanza deludenti. Seguire dei cliché ben precisi, dettati da artisti classici quali Yes, Genesis e Marillion non sempre paga. Ma al di là della mancanza di originalità, in “Rainbow’s end” i difetti sono molteplici. Già solo a livello di registrazione c’è da rimarcare come il sound risulti molto spesso confuso, sporco, con timbri che sembrano voler recuperare certe sensazioni degli anni ’70 non sempre riuscendoci. Seguendo, poi, lo scorrere delle composizioni, si avverte un inizio promettente, ma man mano che scorre la musica le impressioni tendono ad essere tutt’altro che positive. Mancano, in pratica, quelle dinamiche che spesso caratterizzano opere del genere, che danno una certa imprevedibilità alla musica. La batteria, inoltre, scandisce quasi come un metronomo i tempi, con scarsa fantasia e rendendo il tutto ancora più scolastico. Il risultato finale, così, appare piatto, privo di mordente e talmente studiato a tavolino, come si suol dire, da apparire anche piuttosto freddo. Non bastano qualche spunto di “modernità”, vagamente à la Muse, o qualche intervento di sax per risollevare le sorti di un disco che appare molto disordinato e con soluzioni che stancano facilmente. Dispiace essere così duri con dei ragazzi sicuramente animati da passione e che vogliono proporre qualcosa di distante dal mainstream, ma siamo ben lontani dalla sufficienza. L’unica cosa che si riesce a salvare è il buonissimo lavoro fatto alle tastiere da Cookson, sia nella costruzione di alcuni temi di buon effetto, sia in alcune fughe solistiche eseguite egregiamente. Ma è davvero pochissimo per promuovere un cd che, tra le altre cose, è anche eccessivamente prolisso, sfiorando gli ottanta minuti di durata, cosa che appesantisce ancora di più l’ascolto. Rileviamo, quindi, un grado di approssimazione nella realizzazione di questo album davvero troppo elevato, al punto che dubitiamo che possa entrare nelle grazie anche degli appassionati più fedeli e di bocca buona del rock sinfonico.
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Peppe Di Spirito
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