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APE SHIFTER |
Ape shifter |
Brainstorm Records |
2017 |
GER |
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Definire semplicemente “molto attivi” soggetti come il chitarrista statunitense Jeff Aug è un eufemismo… Il musicista americano, che da molti anni vive nel sud della Germania, è stato infatti partecipe di molte realtà, come quella della punk band Banana Peel oppure dei Sorry About Your Daughter, autori di un indie rock per nulla banale e che in qualche modo ha comunque influenzato l’umore di quest’ultimo progetto. Due volte detentore del record mondiale (2009 e 2012) per il maggior numero di concerti tenuti in differenti paesi nell’arco di ventiquattro ore, Aug si è impegnato anche in set acustici e si è recato in tournée con musicisti del calibro – tra gli altri – di Allan Holdsworth, Soft Machine, ecc… Tutto questo, lo ha portato a dire che era arrivato il momento di far qualcosa di diverso: rock strumentale. Chiama i due amici Florian Walter al basso e Kurty Münch alla batteria, dando vita ad un esordio formato da undici brani per l’appunto tutti strumentali, basati essenzialmente su dei riff durissimi. Più ritmica che assoli, cosa che a qualcuno – per principio – non potrà che far piacere. La fase solista è presente, occorre chiarirlo, ma sarebbe dovuta essere strutturata ed articolata meglio, perché molto spesso si rimane nell’attesa che accada qualcosa ed alla fine non accade proprio niente. Di certo, nell’iniziale “Uhluhtc” c’è tanta energia e quando Aug si mette a suonare davvero viene fuori un’attitudine molto simile a quella del Joe Satriani più duro. La seguente “Revolution Summer” è uno dei momenti migliori, in cui l’americano si lascia andare ad assoli di chiara matrice hard-blues anni ’70, con la sezione ritmica dura e netta che fa la sua onesta figura. “Desert Rock” sembra cominciare tipo “Celebrate” degli irlandesi An Emotional Fish (poi divenuta “Gli spari sopra” di Vasco Rossi”), andando avanti come una sorta di lunga desert-jam, nello stile di band “desertiche” come i Queen of the Stone Age, pestando però sempre lo stesso motivo senza mai aggiungere alcun elemento ulteriore. L’approccio satrianeggiante è probabilmente l’aspetto che consente di poter usufruire meglio della proposta, come nel breve spazio solista di “Dopamatic” o nella vivace “Hot Rod”, che al chitarrista italo-americano paga davvero dazio, nonostante lo si trasfiguri per rimanere consoni alla propria causa. E a questo punto, “Sakrotani” appare fin dal titolo un evidente tributo al nume tutelare; maggiori concessioni alle fasi di quiete, anche se si “pesta” fino alla fine senza alcuna particolare evoluzione. “Brain-O-Mat” sembrava partire con un incipit maggiormente creativo, ma alla fine non va a parare da nessuna parte, mentre la conclusiva “Superhero Helden” denota una vena tipica delle scanzonate e festaiole band contemporanee che giocano a mischiare punk e The Who. Che qui di prog non ce ne fosse nemmeno l’ombra, si era capito da tempo; il dubbio era se fosse presente un’attitudine comunque “progressiva”, con cui si andasse oltre gli schemi. Risposta negativa anche in questo caso. Vi piace una situazione “casinosa” per divertirvi? Questo esordio potrebbe allora essere un diversivo. Per il resto, si consiglia al trio preso in esame di elaborare nel vero senso della parola quanto proposto, a meno che non si sia già ottenuto quanto ci si era prefissati.
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Michele Merenda
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